Diritti / Attualità
Ancora incendi e tensioni nel Cpr di via Corelli a Milano
Le condizioni disumane all’interno della struttura fanno scoppiare una nuova rivolta. Danni al settore C dell’edificio, 23 le persone evacuate. Una serie di proteste in tutta Italia dovrebbe riaccendere il dibattito sulla reale finalità dei Centri di permanenza per il rimpatrio. Ma il silenzio delle istituzioni è assordante
Il 6 luglio nel settore C del Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di via Corelli a Milano è scoppiato un incendio che ha coinvolto e reso inagibili quattro stanze della struttura. Ad appiccare il fuoco un giovane ospite, a cui si sono uniti poi un gruppo di migranti ristretti che avevano ricevuto l’espulsione: “Da qualche settimana il ragazzo non si sentiva bene, chiedeva al personale di essere portato in infermeria senza ricevere risposta -racconta Teresa Florio, attivista della rete Mai più lager-NO ai Cpr-. Nelle celle dei residenti non ci sono interfoni per segnalare le emergenze, si può solamente battere sulla porta blindata e chiamare gli agenti che passano nei dintorni, sperando di essere ascoltati”.
Dopo un paio d’ore, in segno di protesta, il ragazzo ha deciso di dare fuoco al materasso e ai pochi oggetti a sua disposizione, facendo levare dalle finestre del settore C una colonna di fumo nero. Ventitré persone sono state evacuate e spostate in un’altra area della struttura.
“Purtroppo questo tipo di avvenimenti è all’ordine del giorno: le segnalazioni di incendio nei Cpr arrivano costantemente, essendo l’unica modalità per i ‘detenuti’ di attirare l’attenzione e rivendicare i propri diritti”, aggiunge Florio. Sono ancora più frequenti i casi di sciopero della fame o autolesionismo: moltissime persone ingeriscono shampoo, pezzi di metallo o frammenti di vetro come contestazione per le condizioni della struttura, ritenute insostenibili e ai limiti del rispetto delle norme igieniche di base. La condizione psicologica e fisica dei detenuti è messa a dura prova (per saperne di più, l’inchiesta di Altreconomia di Luca Rondi e Lorenzo Figoni) e spinge le persone a gesti estremi, come tentativi di suicidio: il 5 luglio un’altra persona avrebbe tentato di togliersi la vita legandosi una corda al collo e tirando. Il gesto sarebbe stato sventato dall’intervento degli altri ristretti presenti.
Una realtà di violenze sempre più frequenti, con modalità simili in tutta Italia. Il 2 luglio nel Cpr di Pian del Lago a Caltanissetta un gruppo di 50 detenuti ha protestato per le misure di trattenimento disumane e l’imminente rimpatrio a loro carico, lanciando sassi contro le forze dell’ordine e incendiando materassi all’interno dei padiglioni. Come per il centro di via Corelli di Milano, le condizioni all’interno di quella struttura sono al limite e violano i diritti degli “ospiti”, che spesso vengono spinti a gesti estremi come l’ingerimento di lamette o il tentativo di suicidio.
Lo scorso febbraio, nella notte tra il 4 e il 5, una protesta forte è scoppiata nel Cpr di Torino, portando a una drastica riduzione delle persone rinchiuse. Quindici giorni dopo un gruppo di detenuti è insorto nuovamente, rendendo inagibile anche l’ultima parte della struttura, chiusa dal 2 marzo.
“C’è un’evidente contraddizione tra le finalità dei Cpr e gli effettivi risultati che vengono raggiunti: molto spesso si trasformano in ghetti nei quali le persone possono essere trattenute per un periodo di tempo irragionevolmente esteso -spiega l’avvocato Maurizio Veglio-. Il decreto legge 20 del 2023 ha ulteriormente prolungato i tempi dei trattenimento da 90 a 105 giorni, senza agevolare in alcun modo le procedure di espulsione delle persone migranti. La durata massima del trattenimento è un fattore del tutto irrilevante ai fini dell’efficacia dello strumento perché l’esperienza insegna che se l’identificazione dello straniero non avviene nei primi 30-35 giorni di detenzione nei centri di permanenza, di regola non avviene successivamente”.
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