Ambiente / Approfondimento
Allevamento intensivo e allevamento biologico. L’analisi dei medici per l’ambiente
In un recente position paper l’Isde ha valutato la relazione dell’impatto sulla salute umana delle tipologie di allevamento “intensivo” e “biologico”. Tra lacune normative e contraddizioni. Un contributo al dibattito sul Green Deal europeo
Gli allevamenti intensivi hanno impatti sulla salute umana e sull’ambiente, inquinano terra e acqua, sono responsabili dell’emissione di gas serra e compromettono la biodiversità. Contribuiscono alla diffusione di zoonosi, cioè lo sviluppo di malattie che dagli animali possono passare all’uomo, e di resistenza agli antibiotici. Sono alcune delle considerazioni -correlate da studi e ricerche, da Ispra alla Commissione europea- contenute nel paper “Allevamento intensivo e allevamento biologico”, redatto dall’Associazione medici per l’ambiente (Isde) e pubblicato nell’agosto 2021. Il documento è presentato come un contribuito al dibattito sul Green New Deal, il piano strategico per rendere l’Unione europea a impatto climatico zero al 2050: gli autori dello studio mettono in evidenza le criticità degli allevamenti intensivi ma non tralasciano le carenze ancora presenti nei cosiddetti modelli sostenibili, in particolare in riferimento alle norme che dovrebbero regolamentarli.
La ricerca muove proprio da una lacuna normativa, cioè l’assenza di una definizione legislativa di allevamento intensivo. In Italia è data, nei suoi tratti solo generali, dal decreto legge 152/2006 “Norme in tutela ambientale” che fa rientrare in tale categoria le strutture con 40mila posti per il pollame, 2mila posti per i suini da produzione e 750 posti per le scrofe. Il vuoto c’è anche per le norme che dovrebbero tutelare il benessere animale. Nonostante il nostro Paese abbia recepito la Direttiva europea 58/98 relativa alla protezione degli animali negli allevamenti, questa, secondo gli autori, non mette in discussione lo sviluppo in sé degli allevamenti intensivi. A tale riguardo, nello studio sono elencate alcune delle loro pratiche più nocive e impattanti registrate negli anni. Per esempio, sono state strappate le piume alle oche vive per fare i piumini; le oche allevate in gabbia sono state costrette a ingurgitare alimenti con tubi esofagei per ottenere il foie gras; i vitelli sono stati allontanati dalle madri dal primo giorno, e messi in gabbia, per poter mungere la madre sfruttandone tutta la duratura della montata lattea; milioni di pulcini sono stati macinati vivi perché maschi e quindi non utili per la produzione di uova. Inoltre, si legge nel position paper, tale funzionamento ha rafforzato un modello produttivo accentrato sulla figura che detiene l’allevamento, le materie prime come i mangimi, la catena di macellazione, trasformazione e distribuzione, relegando l’animale a “una comparsa marginale del sistema”.
I danni si registrano, quindi, sia sull’ambiente sia sulla salute. Il settore zootecnico consuma risorse idriche e le inquina. Secondo la Fao la produzione di mangime e foraggio, l’applicazione del concime sulle colture, insieme all’occupazione delle terre dei sistemi estensivi, sono tra i principali fattori responsabili dei carichi di nutrienti, fitofarmaci e sedimenti nelle risorse d’acqua del Pianeta. Non solo. Sempre stando all’agenzia delle Nazioni Unite, l’uso della terra per il pascolo e per la produzione di mangimi fa sì che l’allevamento sia diventato, a livello mondiale, una delle cause principali della deforestazione con la conseguente alterazione dei sistemi naturali ed erosione della biodiversità. Secondo l’Istituto superiore per la protezione ambientale, che riporta i dati nel report “Focus sulle emissioni da agricoltura e allevamento” pubblicato nel 2018, l’allevamento contribuisce per un valore intorno al 5-7% per l’emissione di gas serra e serra equivalenti, e al 94% per l’emissione di ammoniaca con conseguente formazione di particolato.
A livello globale, secondo l’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc), l’agricoltura rappresenta circa un quarto delle emissioni antropiche totali, mentre si stima che il sistema agroalimentare complessivamente contribuisca tra il 21% e il 37%. All’interno del comparto agricolo, il settore zootecnico è responsabile del 70% di tutte le emissioni dirette a livello globale, escludendo le emissioni legate alle coltivazioni destinate a uso mangimistico.
Quanto agli effetti sulla salute, il report fa riferimento a due specifiche circostanze. Il rischio di zoonosi e che si sviluppino forme di resistenza antimicrobica: le condizioni di vita degli animali negli allevamenti intensivi richiedono per il mantenimento della loro salute un alto intervento di medicalizzazione, in modo particolare di antibiotici, contribuendo cosi all’antibiotico-resistenza, trasmissibile all’uomo.
Il rapporto mette in evidenza anche le criticità degli allevamenti biologici e delle norme vigenti che li riguardano. Queste saranno implementate dal Regolamento europeo 848/2018 che entrerà in applicazione a partire dal gennaio 2022. Allo stato attuale in Italia, si legge nell’analisi, i punti deboli sarebbero riscontrati nell’iter e nelle modalità con cui vengono effettuati i controlli. Sono svolti dagli ispettori degli organismi di controllo (Odc), enti privati pagati dal produttore, che devono controllarne la conformità ai requisiti stabiliti dai regolamenti Ue e dai decreti ministeriali che li applicano. La programmazione del numero delle ispezioni risponde alla regola della classificazione del rischio: fino al 2021 è cioè garantita un’ispezione annua in loco su tutte le aziende oltre a ispezioni supplementari a seconda del rischio di ciascuna attività. Inoltre il Dipartimento dell’Ispettorato centrale della tutela della qualità e repressione frodi dei prodotti agroalimentari, del ministero delle Politiche agricole, gli assessorati all’agricolture delle Regioni svolgono in maniera coordinata la vigilanza annuale sugli organismi di controllo autorizzati. A monitorare gli aspetti sanitari e ambientali degli allevamenti sono, rispettivamente, i veterinari delle Asl e il personale dell’Arpa.
Secondo gli autori del rapporto è necessario implementare la presenza, nelle fasi di controllo, di figure prive di conflitti di interesse a tutela del consumatore e degli animali, punto su cui non interviene a sufficienza il regolamento europeo. “Il rischio che si corre potrebbe essere la sostituzione di un appellativo, ‘intensivo’ con ‘biologico’, mantenendo inalterato il sistema di allevamento”, utilizzando “deroghe e scappatoie” per non “creare squilibri manageriali nel settore ormai a filiera unica”, si legge nell’indagine. “L’utilizzo del termine biologico associato a capannoni, a tutti gli effetti allevamenti intensivi con qualche disciplinare rispettato per fini commerciali, vanifica ogni legislazione prodotta e serve solo come strumento statistico vuoto e fuorviante per gli amministratori”.
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