Terra e cibo / I nostri libri
Alla scoperta del pane del futuro che tutela le filiere agricole
L’Italia ha una nuova geografia del pane: i fornai del futuro, spesso giovani e intraprendenti, ci mettono la faccia e impastano acqua e farina con valori sociali e ambientali. Ne parla il nostro nuovo saggio “Pane buono”
Davide Longoni, a Milano, non panifica più la farina del grano duro Senatore Cappelli. Quello coltivato per lui a Loreto Aprutino (PE) da Stefano Papetti della società agricola Nicoletta de Fermo non può più chiamarsi così, perché il contadino si riproduce il seme e non lo acquista dalla Società italiana sementi (Sis), controllata da BF Spa e che ne ha l’esclusiva per la moltiplicazione e la vendita. BF è quotata in Borsa ed è il soggetto a cui è dedicata l’inchiesta di copertina del numero di novembre di Altreconomia. Come ha denunciato più volte la Rete Semi Rurali, che si occupa di promuovere la biodiversità agricola, Sis avrebbe “limitato la vendita del seme solo a quegli agricoltori disposti a restituire il raccolto e ha diffuso la voce che chi non compra il loro seme certificato non può più usare il nome”, ha scritto Duccio Facchini. L’ormai famosissimo Senatore Cappelli è diventato l’icona del “grano antico” e oggi è completamente rapito dal mercato. Fa quasi sorridere rileggere un’intervista a Giuseppe Li Rosi, pubblicata da Altreconomia nel 2011. “All’inizio seminavo i miei grani antichi di nascosto come fosse marijuana -raccontava-. Temevo mi bloccassero i contributi europei, che impongono l’uso di varietà registrate dell’industria sementiera”.
Nel libro “Pane buono” abbiamo scelto di non usare la locuzione “grani antichi”, parlando piuttosto di vecchie varietà. La realtà attuale è completamente diversa se confrontata con la scelta della “clandestinità” raccontata da Li Rosi. Ciò che è successo lo spiega Riccardo Bocci, agronomo e coordinatore della Rete Semi Rurali: “Rispetto a 15 anni fa, oggi c’è un mercato. Lo si può vedere sugli scaffali: da Barilla a De Cecco tutti stanno parlando di ‘grani antichi’. Una delle vicende più emblematiche è quella del Senatore Cappelli, oggi un grimaldello per Coldiretti e Bonifiche Ferraresi per aggredire il mercato”. Quei cereali un tempo misconosciuti oggi “hanno un interesse commerciale e questo comporta tutti i rischi che vediamo”.
E il Cappelli non è l’unico: la filiera del grano Verna, in Toscana, oggi è controllata dal Consorzio agrario di Siena con cui deve relazionarsi chi desidera coltivarlo e usarne il nome. “Abbiamo creato mercati con le stesse regole ma con varietà diverse: quelle che avevamo riportato in coltivazione sperando che potessero costruire filiere e relazioni diverse. Oggi sono state inglobate e restituite al consumatore, basti pensare al marchio ‘Le Stagioni d’Italia’ di Bonifiche Ferraresi e a come viene presentato il Cappelli”, dice Bocci. Il sito della società spiega che “con una coraggiosa azione di recupero, ‘Le Stagioni d’Italia’ ha contribuito a far conoscere questo grano e a riscoprire un tassello importante della nostra identità gastronomica”. Come se fosse tutta farina del loro sacco. Il terreno è scivoloso: “Abbiamo sempre promosso questi grani in quanto portatori di un modello agricolo diverso, adatti a essere coltivati in biologico. Oggi sono coltivati in modalità convenzionale e diventano un feticcio per i consumatori”, conclude Bocci.
Un altro esempio è il frumento Solina, di cui si trovano attestazioni storiche che risalgono al Cinquecento. Da sempre presente nelle montagne abruzzesi, oggi lo si coltiva anche in pianura, in Emilia-Romagna, “per esigenze di mercato, ma snaturando la sua genetica”, sottolinea il coordinatore di Rete Semi Rurali. Nel frattempo, la Regione Abruzzo ha registrato la Solina come varietà da conservazione e tramite bando ne ha affidato la riproduzione a due aziende agricole.
E se prima c’erano almeno 15 varietà, tante quante le aziende che lo coltivavano in autonomia, alla fine ne resteranno appena due, quelle degli agricoltori che hanno diritto a vendere il seme. “La burocrazia sta distruggendo la diversità che ha retto 500 anni. Invece di sostenere un consorzio e la gestione collettiva del seme, la Regione promuove una visione privatistica”, conclude Bocci. Chi leggerà “Pane buono” vedrà che il fornaio di Monza, Adriano Del Mastro, racconta di aver avviato una filiera dedicata al Solina nel suo paese d’origine, Campo di Giove (AQ). “In realtà non posso chiamarlo così, perché non acquisto il seme”, dice. Una delle idee da superare, forse, è quella del cereale che viene trasformato in “purezza”, quella del pane mono-varietale. Bisognerebbe allora allontanarsi dal mondo del vino per guardare a quello dell’olio extravergine d’oliva, la cui storia è fatta di (grandi) blend. Perché il futuro del pane è nel gusto complesso delle popolazioni evolutive.
TUTTI I FORNI DEL “PANE BUONO”
Dimentichiamoci il pane da supermercato -quello comprato la mattina e immangiabile la sera stessa, duro come un sasso- o il “pane di una volta”, che forse non è mai esistito se non come categoria ideologica. Il “pane buono” del libro scritto da Laura Filios e Luca Martinelli non è il pane del passato, ma quello del futuro, risultato di un processo rivoluzionario di cambio di paradigma, simile a quello che ha interessato il mondo del vino una ventina di anni fa. Questo libro raccoglie cento storie (29 reportage e 71 “briciole”, segnalazioni) di fornai e fornaie, contadini e contadine, artigiani e artigiane che da Nord a Sud hanno sviluppato filiere agricole legate alla produzione di vecchie varietà di grano locale (che è improprio definire “antico” perché risultato di incroci e riscoperte).
“Pane buono. Viaggio nell’Italia dei nuovi forni artigiani” può essere letto come una mappa che si inizia a tracciare: come bussola, per orientarsi, gli autori hanno usato il “Manifesto dei panificatori agricoli urbani” il documento, sottoscritto nel 2020 a Bologna, frutto di un lavoro partecipato avviato un anno prima. Il testo racchiude in dieci punti i valori e gli obiettivi del movimento, chiarendo il ruolo di chi panifica come attore all’interno di una filiera complessa, che riunisce in un prodotto semplice (il pane è un impasto di acqua, cereali, lievito e sale) tanti soggetti -contadini, titolari di mulini, rivenditori- e manda un messaggio anche a chi alla fine il pane lo compra e lo mangia. Sono tante le storie che emergono da questo mondo, storie di coraggio e intraprendenza, ma soprattutto di collaborazione e non competizione, perché leggendole si capisce che il pane riguarda la relazione, la trasmissione e, appunto, il nostro futuro. (Nicola Villa)
“Pane buono. Viaggio nell’Italia dei nuovi forni artigiani” di Laura Filios e Luca Martinelli, 192 pagine, 16,50 euro, Altreconomia. In libreria, nelle botteghe e su altreconomia.it
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