Crisi climatica / Approfondimento
Alla Cop27 l’urgenza di far fronte ai danni e alle perdite dovuti ai cambiamenti climatici
Ogni anno dal 1991 circa 189 milioni di persone sono state colpite da eventi meteorologici estremi nei Paesi a basso reddito. Conseguenze diffuse che richiedono risorse finanziarie specifiche. Ma i Paesi ricchi resistono. Il tema sarà al centro della prossima conferenza delle Nazioni Unite che si terrà in Egitto dal 6 al 18 novembre
Ondate di calore, precipitazioni intense, siccità e cicloni tropicali si stanno già verificando in tutto il mondo. L’aumento della temperatura superficiale globale di circa 1,1 °C (rispetto al periodo 1850-1900) ha reso alcuni gravi impatti dei cambiamenti climatici ormai inevitabili, potenzialmente distruttivi per le vite e i mezzi di sussistenza della popolazione mondiale e maggiormente per quelle del “Sud globale”.
Per questo motivo sta crescendo il dibattito su come fare fronte alle conseguenze dei cambiamenti climatici che sono già in atto, e ci si aspetta che l’argomento sarà al centro della prossima conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Cop27), che si terrà in Egitto dal 6 al 18 novembre.
Nel corso di più di un trentennio di negoziati sul clima, i cosiddetti Paesi in via di sviluppo hanno più volte sollevato il problema dei danni e delle perdite (in inglese loss and damage) provocati dai cambiamenti climatici. Secondo l’ultimo report della rete “Loss and damage collaboration”, che mette insieme professionisti, ricercatori e attivisti che fanno parte di organizzazioni e istituzioni internazionali, ogni anno dal 1991 circa 189 milioni di persone sono state colpite da eventi meteorologici estremi in quei Paesi.
“Siamo entrati ormai nell’era degli impatti dei cambiamenti climatici”, spiega ad Altreconomia Saleemul Huq, direttore del Centro internazionale per il cambiamento climatico e lo sviluppo (Icccad) e tra i primi e più esperti ricercatori sul tema. “Sempre più eventi meteorologici estremi si verificheranno e avremo come conseguenza molti danni e perdite economiche che richiedono risorse finanziarie specifiche per affrontarli”. Le risorse finora destinate ai Paesi in via di sviluppo, e non ancora del tutto fornite, sono pensate per finanziare attività di mitigazione e adattamento, quindi per incentivare uno sviluppo a basse emissioni, per esempio attraverso energie rinnovabili, e per potenziare le infrastrutture e costruire difese contro gli eventi estremi. “Con l’Accordo di Parigi il tema del loss and damage ha ricevuto finalmente riconoscimento politico. All’articolo 8, si riconosce l’importanza di prevenire (averting), limitare (minimizing) e fronteggiare (addressing) le conseguenze dei cambiamenti climatici. Per i Paesi in via di sviluppo i fondi destinati alla mitigazione e all’adattamento si occupano di prevenire e limitare, mancano risorse per far fronte agli impatti, quindi per loss and damage. Questi Paesi chiedono uno strumento finanziario specifico che si occupi di questo”, spiega Elisa Calliari, ricercatrice associata del Centro euro-mediterraneo sui cambiamenti climatici (Cmcc).
Con l’espressione loss and damage si fa riferimento a un’ampia gamma di impatti dei cambiamenti climatici. Alcuni possono essere quantificati in termini economici, come i danni alle infrastrutture, alla salute delle persone, le perdite di produzione agricola; altri sono definiti “perdite non economiche” e comprendono la perdita di biodiversità, di territorio a causa dell’innalzamento del livello del mare, di patrimonio culturale, di conoscenze indigene, oltre alla questione emergente della migrazione umana indotta dal clima. La richiesta dei Paesi a basso reddito è quella di considerare anche economicamente loss and damage come qualcosa di separato e aggiuntivo, il terzo pilastro della politica climatica internazionale accanto alla mitigazione e all’adattamento. Una posizione contestata dai Paesi ad alto reddito invece: “Per questo gruppo di Paesi non si tratta di costruire strutture nuove ma di catalizzare quelle esistenti verso questi bisogni specifici e impegnarsi ad aumentare le risorse economiche dedicate poiché si riconosce la necessità di gestire situazioni di emergenza o di sviluppare azioni che possano preservare la memoria di patrimoni culturali, ambientali e territoriali che scompariranno”, continua Calliari. Questa opposizione è anche eredità di una lunga battaglia combattuta da parte dei Paesi in via di sviluppo per il riconoscimento formale della responsabilità dei Paesi industrializzati di questi danni e perdite. Oggi i Paesi vulnerabili non chiedono risarcimenti dai responsabili ma che sull’azione climatica si rispetti il principio della “responsabilità comune ma distinta”, in base alle diverse capacità, stabilito dalla Convenzione, secondo il quale i Paesi sviluppati devono fornire risorse finanziarie per assistere i Paesi in via di sviluppo nell’attuazione degli obiettivi sul clima.
“La richiesta dei Paesi vulnerabili alla Cop27 è quella di un accordo sulla creazione di un fondo di finanziamento specifico su loss and damage che sia la base per cominciare le negoziazioni sulla sua progettazione e il suo funzionamento”, riprende Huq. Diverse proposte hanno identificato alcune delle caratteristiche fondamentali che il fondo dovrebbe avere, dalla prospettiva dei Paesi vulnerabili. La più recente è quella dell’Alleanza dei piccoli Stati insulari (Aosis). Considerata l’ampiezza delle circostanze di cui si occuperebbe -dagli eventi meteorologici estremi a quelli a insorgenza lenta, dalle perdite e danni economici a quelli non economici- lo strumento dovrebbe essere flessibile, composto di misure stratificate, in modo da poter fornire un sostegno su misura. Tempestivo, nel caso delle emergenze, e su base programmatica per quel che riguarda gli eventi a lenta insorgenza, prevedendo l’accesso diretto al fondo e superando così l’impostazione a progetto che prevede lunghi tempi di attuazione. Maggiore considerazione inoltre dovrebbe essere data alle comunità locali e alle popolazioni indigene cui dovrebbero essere destinati i finanziamenti. “Un ulteriore punto su cui si spinge – afferma Calliari – è che il meccanismo ricada sotto la Convenzione quadro sui cambiamenti climatici (Unfccc) e non sotto un organismo esterno, come garanzia di un formale impegno collettivo a raggiungere una somma concordata e di un processo di attuazione più trasparente”.
Manca ancora un approccio sistematico per la classificazione di loss and damage, per questo è anche difficile monitorare le fonti di finanziamento mobilitate fino ad oggi. Alcuni Paesi si sono recentemente mossi in autonomia, dichiarando obiettivi individuali di finanziamento per questo tipo di eventi: Scozia, Vallonia (Belgio), Danimarca. A questi si aggiunge la proposta del Global Shield, iniziativa dei Paesi del G7 (promossa soprattutto dalla Germania) articolata in collaborazione con il gruppo dei Paesi vulnerabili V20. I dettagli non sono ancora disponibili, la sua presentazione è prevista proprio durante la Conferenza in Egitto, ma prevede un approccio su misura, basato sulle esigenze e sui singoli Paesi, all’interno del quale ci sarà spazio anche per forme di copertura di tipo assicurativo.
“Non sono contrario a prescindere a sistemi che utilizzino le assicurazioni -dice Huq-. Bisogna però tenere presente che questo sistema non può essere adottato ovunque. Se un Paese povero non può pagare i premi assicurativi, chi li paga? Se spetta ai Paesi ricchi, perché allora non fornire quei soldi direttamente ai Paesi vulnerabili? Inoltre, con l’aumento di eventi devastanti, mi domando quanto le assicurazioni saranno in grado di coprire i danni. Le assicurazioni possono essere uno strumento solo se pensato all’interno di una rosa con diversi altri. Siamo disponibili a discuterli, ma all’interno della Convenzione quadro sui cambiamenti climatici”.
© riproduzione riservata