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Africa in Forum – Ae 70
Bamako, Mali: nello scorso gennaio va in scena il Social forum del continente africano. Personaggi e interpreti: contadini e pescatori, i soliti altermondialisti e i paradossi del mercato, come il riso che vola e il cotone che, lavorato in Cina,…
Bamako, Mali: nello scorso gennaio va in scena il Social forum del continente africano.
Personaggi e interpreti: contadini e pescatori, i soliti altermondialisti e i paradossi del mercato, come il riso che vola e il cotone che, lavorato in Cina, torna qui come magliette
La giornalista francese è diligente. È ben informata, sfoglia con attenzione un dossier di articoli. Sottolinea con un pennarello verde e prende appunti. È tranquilla: come se sapesse già cosa scrivere prima ancora che tutto cominci. La ragazza di Bamako, capitale del Mali, uno dei più poveri fra i Paesi africani, vende banane ed è seduta accanto a lei nel grande spazio della Maison de la Culture. Alle loro spalle il fiume Niger rimanda una luce bianca, accecante, impolverata. La ragazza, in un buon francese di strada, chiede alla giornalista perché tutta questa gente, bianchi accaldati e africani con i loro abiti migliori, corra da una parte all’altra della città. “C’est le Forum Social”, risponde la giornalista. La venditrice sembra soppesare la risposta. “Ci ritroviamo per parlare dei problemi dell’umanità”, precisa la donna francese. La ragazza cerca di capire, sussurra un piccolo grido. Poi si alza, saluta, si mette il catino con le banane in testa e cammina con la sua lentezza succhiando acqua colorata da un sacchetto di plastica. Mamadou Traorè, segretario del primo Social forum africano, organizzato a Bamako alla fine di gennaio, ha una risposta ancor più politica: “Questo è uno spazio di dialogo, un luogo di resistenza”. Avrebbe capito la giovane venditrice di banane?
Il contadino e il pescatore. Alla Biblioteca nazionale, una delle periferie di Bamako, si ritrovano i leader contadini. L’Office de Niger, grande azienda statale, ex-compagnia coloniale nel cuore più fertile del Mali, ha organizzato pulmann (bus residuati di troppi chilometri, dono di qualche cooperazione austriaca) di “produttori”. Osman Tianta ha cinquant’anni e nove figli (due vanno alla scuola comunitaria): coltiva riso nelle piane alluvionali attorno alla città di Segou. Bekaye Diarra è un bozo, popolo di pescatori: ha 53 anni e sei figli. Parla un elegante sharabia, il francese della strada. Tre dei suoi figli vanno alla medersa, la scuola coranica. Parleranno l’arabo e i maestri sono wahabiti arrivati dalla Guinea. I loro stipendi sono pagati dai sauditi. Bekaye è presidente di una cooperativa, ha documenti in un francese che non sa leggere.
“Siamo qui per spiegare i nostri problemi al mondo”, dicono assieme il pescatore e il contadino. Per Osman i guai sono i concimi e i fertilizzanti. “Troppo cari, ci indebitiamo per comprarli e poi siamo costretti a vendere il riso ai commercianti di Bamako che ci tengono in pugno per i nostri debiti”. Il riso, in Mali, arriva dalla Cina, dalla Thailandia. È riso vecchio di almeno cinque anni. E poi c’è il riso statunitense che fa viaggi transoceanici: va fino in Giappone, laggiù si ferma in silos e, dopo qualche tempo, sotto forma di aiuti alimentari, atterra in Africa occidentale. Questo è il mercato, questo è uno dei volti della cooperazione. Il riso nippo-americano finisce sui mercati dei villaggi della brousse. Là dove non si vede nemmeno un chicco di riso maliano. Costa 300 cefa (il franco dell’Africa occidentale) al chilo, poco meno di mezzo euro. Un’enormità.
Bekaye, il pescatore, sa cosa dirmi: “Il pesce è sparito, il Niger sta insabbiandosi e non c’è più niente da pescare. Trent’anni fa c’eravamo solo noi sulle rive del fiume. Oggi tutti hanno fame, tutti pescano e i prezzi crollano”. I pescatori della cooperativa di Bekaye essiccano il pesce sul fuoco e lo vendono ai soliti commercianti di Bamako. “Abbiamo bisogno di reti, di benzina per i generatori che pompano acqua per le piscine dove alleviamo il pesce, di frigoriferi”.
Il cotone. L’economia del Mali è appesa a un filo. La vita di tre milioni di contadini è annodata ai batuffoli di cotone che imbiancano le savane del Sud del Paese alla fine della stagione delle piogge. Il cotone è l’8 per cento del prodotto interno lordo, quasi la metà di tutte le sue esportazioni. Il prezzo del cotone è deciso (come costo di riferimento) da tecnici che se ne stanno rinchiusi negli uffici della Cotlook, una società di Liverpool. Come glielo spieghiamo a Soloba Mandy, leader locale di un’associazione di contadini a Soulougou, che i produttori di cotone statunitensi (ma anche greci, spagnoli, perfino cinesi) hanno ricevuto 230 dollari di contributi pubblici per ogni mezzo ettaro coltivato? Quasi quanto il salario medio annuale di un operaio in Mali.
I prezzi del cotone sono tenuti bassi dai sussidi Usa: i cotonieri del Texas sono uno dei pilastri della forza elettorale di George Bush. È una spiegazione che può valere per Soloba? La Banca mondiale, lo scorso anno, ha imposto al governo maliano (che, di fatto, compra tutto il cotone attraverso una società pubblica monopolista in corso di privatizzazione), di ridurre il prezzo del cotone di 50 centesimi di cefa. Per tre anni, il cotone non potrà essere pagato più di 175 cefa al chilo. Insufficienti a ripagare non solo il lavoro, ma anche i costi di produzione. I contadini, quest’anno, avranno solo debiti nelle loro ciotole di miglio. “Non avremo denaro -dice Soloba Mandy-. Per qualsiasi cosa saremo costretti a vendere le riserve di miglio o una capra. La prossima estate saranno mesi di fame”. Il cotone del Mali viene venduto (il 99,9 per cento) sulle banchine del porto di Abidjan, in Costa d’Avorio. Al 70 per cento prende la via della Cina. Dove viene trasformato in magliette. Riprenderanno presto la strada dell’Africa per essere vendute nei mercati della savana. C’è della lucida follia nel mercato.
Samir Amin. Dicono che Samir Amin si aggiri arrabbiato
per le sale del suo albergo. Chiede un documento finale alla chiusura del Forum. Altri osteggiano questa posizione.
Il “documentismo” è malattia tutta della sinistra occidentale.
Gli africani sembrano assenti dalla discussione.
A sera i bianchi mangiano al ristorante San Toro (appartiene ad Aminata Traorè, intellettuale di prestigio del Mali, ex-ministro della cultura, amata dagli altermondialisti europei) e si discute, con calore, sull’opportunità di questo documento. Passare la serata al San Toro vuol dire spendere almeno dieci, quindici volte il salario medio giornaliero di un operaio maliano. In più c’è la spesa per il taxi. Per molti europei, questo è il primo viaggio in Africa. Le delegazioni delle Regioni italiane hanno occhi di fuori: Bamako è avvolta nelle nuvole di smog e polvere. La città si intasa di mobylettes e furgoncini-taxi. Al mattino chiudono perfino uno dei due ponti della città e gli ingorghi diventano inestricabili. L’80 per cento dei maliani è analfabeta. I contadini firmano con l’indice i documenti dei loro debiti con le banche rurali. Il Social forum si rinchiude nei recinti dell’Università, della Casa della cultura, del Museo nazionale, del Palazzo dei congressi. L’Africa sembra restarne fuori. Ci si litiga per il programma: un libro di 76 pagine, un elenco infinito di seminari e incontri. Le sale si affollano per gli incontri con Josè Bovè o Ignacio Ramonet. Deserto assoluto, invece, alla spianata dell’Hyppodrome o, sotto la tenda, esposta al pieno sole, dove i pescatori bozo parlano dei loro guai con l’essiccamento del pesce.
Thomas Sankara. I ragazzini che affollano lo stadio Modibo Keita (leggenda degli antichi movimenti panafricani) non erano ancora nati quando Thomas Sankara, giovane leader del Burkina-Faso, il più povero dei Paesi dell’Africa occidentale, venne ucciso dal suo amico e, fino ad allora, alleato, Blaise Compaorè. Si infranse, così, nel 1987, il sogno di un’Africa nuova, di orgoglio, nazionalista e ribelle, contro il neocolonialismo. Era stato Sankara a cambiare il nome alla vecchia colonia francese dell’Alto Volta: Burkina-Faso sta per “paese degli uomini integri”. Altermondialista in anticipo sui tempi: i ragazzi hanno magliette, adesivi, cappellini con l’effigie di Sankara, leggono i libri che lo mitizzano. È l’icona di un piccolo esercito di giovani che ascolta la musica reggae, manda a tutto volumi precari sound-system e parla, convinto, di un mondo che non vorrebbe avere confini.
Il migrante. Adama Sidibe sa come compiacere gli ascoltatori. In francese per gli stranieri, in un suadente bambara per le ragazze della scuola, parla della sua storia di migrante.
Chi fugge, chi cerca di migrare ha cultura, un po’ di soldi (molti soldi per queste latitudini), intraprendenza. Doti che non mancano ad Adama. Con gli amici ha tirato su un doppio di mura di reticolato in mezzo alla spianata dell’Hyppodrome. Pochi altermondialisti si spingono fino a qua. Adama, 24 anni, racconta delle sue quattro fughe verso l’Europa. “Che volete che faccia? Qua c’è solo povertà. Là c’è il denaro e la felicità”. Racconta le solite storie: il bus per Gao, il passaggio del deserto, i contrabbandieri che ti rapinano i soldi, i passeurs tuareg che consumano vendette attese contro i neri e ti vendono ai mercanti di uomini appena passata la frontiera. Poi l’arrivo in Algeria, sei mesi e mezzo a lavorare negli orti. Infine il balzo fino ai campi ai confini con il Marocco. Gli assalti ai reticolati di Ceuta e Melilla. Adama è un po’ star, un po’ attore. Attira gli scatti dei fotografi e gli occhi delle ragazze. “Ho sette fratelli, mio padre faceva l’impiegato in un ufficio dello stato. Non ha mai avuto la sua pensione. Non avevamo nemmeno la terra e io non volevo vivere in campagna. Sono partito all’avventura”.
Lingua ingannevole il francese: je suis parti à l’aventure… Adama è stato rimpatriato fino al deserto algerino e mollato lì dai marocchini. Guardo i pupazzi di ferro che scalano il finto, doppio reticolato di Ceuta. Un cartello assicura: “Non proverò più a lasciare l’Africa”. Adama promette che, appena avrà i soldi, ripartirà all’avventura.
Madame Kantè. Le donne, leggere come immensi ippopotami danzanti, ballano nel piazzale della Maison de la Culture. Cerco là in mezzo chi parla francese. Trovo solo una donna su almeno cinquanta. È madame Kantè. Viene dal Sud del Mali, dalla regione di Bougouni. “Abbiamo chiesto il permesso ai nostri mariti per venire e siamo qua per farci vedere”, spiega con una voce che rimbomba. “Siamo analfabete, non abbiamo acqua potabile per bere o per cucinare, non ci sono dighe per trattenere l’acqua e le vacche si mangiano i frutti dei nostri orti”, dice i suoi problemi in quest’ordine madame Kantè. Un contadino mi avrebbe detto: i soldi, il costo del concime, il debito con la banca, il prezzo del miglio, la perdita dell’autorità se non faccio mangiare la mia famiglia.
Nei villaggi parli con gli uomini, hai un interprete, ma parli solo con gli uomini. Le donne sono dietro le mura di terra delle corti. A cucinare, a far bollire l’acqua. Madame Kantè mi dà il numero del suo telefono: questo vuol dire che ha un telefono. E anche un televisore in bianco e nero, dice. La Tv
della brousse: apparecchio cinese che funziona con batterie
da 12 volts.
I giornalisti. Razza strana i giornalisti. Alla conferenza stampa di presentazione del Social forum siamo in una trentina. I bianchi sono solo italiani. Forse c’è un francese. Dell’Humanité. Giornalisti-giornalisti (senza altre giacchette di militanze politiche) davvero pochi. Il Manifesto, ecco. No, ci sono anche due bravi inviati di Rai-news24 che si danno un gran da fare e fanno un’intervista dopo l’altra. I giornalisti maliani sono attenti, riempiono pagine di appunti. Gli italiani sono più distratti. In fondo qua non ci sono notizie. Leggo i primi articoli su Internet: raccontano di un corteo di apertura colorato (c’erano i dogon ad aprire la sfilata per gli stradoni della tangenziale di Bamako: sembrano gnomi con i loro cappelli da cacciatori), si intervistano i leader italiani, si cerca un filo conduttore in questo Forum. Si inseguono i protagonisti di sempre: Bové, Petrella, Ramonet, Samir Amin, Luciana Castellina. Susan George ed Aminata Traorè camminano, mano nella mano, alla testa del corteo. I leader partono tutti troppo presto dopo la chiusura del Forum: peccato, l’Africa non ha i tempi della mondializzazione, né dell’altermodialismo. Bisognerebbe rimanere a lungo nella brousse maliana, terra di magia e feticci; mangiare dalla stessa ciotola la polenta di miglio con la salsa di arachidi; accettare l’acqua come dono di benvenuto e guardare negli occhi le vittime vere del mercato. Ma chi ha tempo? Ci sono altri Forum sparsi per il mondo.
C’è una calendario di riunioni già fissato in Europa.
Il passaggio in Africa è un attimo.
Universi policentrici
Il Social forum mondiale, che fino alla scorsa edizione si è svolto a Porto Alegre in Brasile (e per una volta a Bombay in India), quest’anno è stato policentrico: si è tenuto a Bamako, in Mali, a metà gennaio scorso; a Caracas, in Venezuela, pochi giorni dopo; a Karachi, ancora in forse mentre scriviamo, questo marzo.
Numeri più modesti che altrove (80 mila partecipanti contati a Caracas; 10 mila, a essere ottimisti, a Bamako), il Social forum africano è stato un confronto fra universi diversi, fra mondi culturali e sociali lontani mille miglia. È già molto se gli occidentali (pochi: a Bamako non c’erano né Bob Geldof, né Bono. Nemmeno Blair o Veltroni hanno alzato un sopracciglio verso questo strano forum e quindi la copertura mediatica si è azzerata) hanno guardato negli occhi gli intellettuali africani
e i leader contadini.
Almeno si sono conosciuti e annusati.
Il Social forum africano è stata una sbadata anarchia. Il centro stampa, ipertecnologico, era stato un dono di Chirac per il vertice dell’Africa francofona dello scorso dicembre: era un mondo a parte, lontano anni luce dalle altre sei sedi del Forum dove i microfoni balbettavano e gli incontri erano spostati di continuo.
In fondo un forum allegro e piccolo: festoso per le donne, che, alla Maison de la Culture, si sono prese spazi importanti e affollati; giocoso per i ragazzi che hanno ritrovato nel culto di Thomas Sankara, leader del Burkina-Faso ucciso quasi vent’anni fa, il Che Guevara africano; strano per gli europei che, se hanno avuto occhi, almeno hanno visto un pezzetto d’Africa; in qualche modo sono stati giorni buoni anche per i contadini di quest’Africa occidentale, che, finalmente, hanno trovato qualche orecchio ad ascoltarli.