Altre Economie
Ae 101 – Editoriale
Il nuovo anno appena iniziato sarà scandito da una parola: licenziamento. Secondo le previsioni, in questo e nel prossimo anno sono a rischio in Italia fino a 900mila posti di lavoro, immolati alla causa della crisi economica globale.
Chi perderà nella lotteria della disoccupazione? Sappiamo già chi sono le vittime predestinate di questo sacrificio. Sul totale di 23 milioni circa di occupati, i cosiddetti precari sono ormai quasi tre milioni. Almeno 455mila (secondo le stime della Cgil) a gennaio non hanno rinnovato il loro contratto. Si tratta di 80mila co.co.pro., 100mila apprendisti, 250mila contratti a termine, 25mila interinali. Per loro, nessuna garanzia sociale nel periodi di disoccupazione. Eccola, la flessibilità tanto invocata dalle imprese: più facile assumere, certo, ma soprattutto più facile licenziare.
Anche per i 14 milioni di assunti a tempo indeterminato le cose non vanno granché bene. Secondo l’Inps, nel novembre 2008 le ore di cassa integrazione ordinaria nel settore industriale sono triplicate rispetto al 2007. Vuol dire 300mila lavoratori. Tra questi, quelli della Fiat che ha fermato tutti gli stabilimenti: 58mila persone che sono rimaste a casa (con 700 euro al mese) da lunedì 15 dicembre al 10 gennaio. A queste condizioni, il mantra dell’aumento dei consumi per uscire dalla crisi non inganna più nessuno: dal 2000 al 2006 il potere d’acquisto in Italia è rimasto pressoché fermo, mentre la produttività delle aziende aumentava (dati Mediobanca). Tra il 1999 e il 2003, al lavoro andava l’87% della maggiore produttività. Tra il 2003 e il 2007 la percentuale è scesa al 32%. Nel 2007 solo il 5%.
Dove sono andati i guadagni derivanti dalla maggiore produttività delle aziende? Al capitale, non al salario.
Dall’altro lato, non usciremo dalla crisi con un nuovo keynesismo fatto di intervento statale e grandi opere: non possiamo tutti diventare muratori. Né possiamo sperare che si producano e si vendano ancora più auto. Il modello non funziona più, e da molto tempo.
Si sta davvero facendo di tutto per salvaguardare i posti di lavoro? Le misure messe in campo dalla politica ci paiono improvvisate e largamente insufficienti.
La tutela del lavoro dovrebbe invece tornare al centro dell’impegno politico ed economico.
Il lavoro nella sua accezione più ampia, inteso anche come realizzazione di sé e contributo alla società. Un diritto fondamentale da difendere.
Si può campare con la sicurezza di un contratto di tre mesi? Che progetti si possono fare con la minaccia di perdere da un giorno all’altro il posto di lavoro? Si può accettare qualsiasi impiego, pur di averne uno, calpestando le proprie convinzioni?
Il lavoro che faccio è parte della mia vita, e non posso ignorare le conseguenze che ha su me, sugli altri e sull’ambiente.
Ecco allora un nuovo modello cui aspirare: quello che supera il binomio soldi-consumi e lo sostituisce con lavoro-benessere.
Sapremo perseguirlo?