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Diritti / Intervista

“A Gaza e in Cisgiordania noi giornalisti siamo un bersaglio”

Un giovane cammina nella distruzione di Khan Yunis, nella Striscia di Gaza © Saeed Jaras / APA/SIPA / Ipa-Agency.Net / Fotogramma

Dal 7 ottobre al 19 marzo solo nella Striscia sono stati uccisi 128 giornalisti: cinque alla settimana. “Chiediamo di essere al sicuro, di essere liberi di fare il nostro lavoro, semplicemente di informare. Israele deve rispondere di ciò che ha fatto”, spiega la reporter Shuruq As’ad, del Sindacato dei giornalisti palestinesi

Dal 7 ottobre 2023 nella Striscia di Gaza sono stati uccisi oltre 120 giornalisti e il bilancio sale di giorno in giorno. Succede in tutti i conflitti, ma questa volta sembra esserci qualcosa di diverso. Ne abbiamo parlato con Shuruq As’ad, del Sindacato dei giornalisti palestinesi, oltre che prima giornalista donna e anchorwoman della tv pubblica palestinese e corrispondente, tra gli altri, per Radio Montecarlo. L’intervista è avvenuta in occasione de “La guerra di Gaza: i fatti e le narrazioni”, promossa dalla Federazione nazionale della stampa italiana.

As’ad, sembra che in questo conflitto, più di altri, i giornalisti siano diventati dei veri e propri target e non soltanto loro, ma anche le loro famiglie. È così?
SA Sì. Come sindacato dei giornalisti palestinesi abbiamo contato 128 giornalisti uccisi dal 7 ottobre al 19 marzo, cioè cinque giornalisti alla settimana. Diciamo che sono diventati dei veri e propri bersagli, perché diversi di loro hanno ricevuto delle minacce, telefonate in cui veniva loro detto “vi seguiamo, sappiamo dove siete e avete 48 ore per andarvene”. Una mia collega ha ricevuto minacce dirette e 48 ore dopo la sua casa è stata bombardata, ha perso il padre e due figli.

Qual è la condizione in cui operano i giornalisti a Gaza?
SA A Gaza stanno lavorando in una situazione estremamente critica, che non ha eguali nel resto del mondo. La maggior parte dei miei colleghi sono sfollati e hanno perso le loro famiglie. Le loro case e i luoghi di lavoro sono stati completamente distrutti e ovviamente sono stati sottoposti a un trauma, le cui conseguenze si faranno sentire a lungo. Praticamente tutti gli uffici che ospitano i media, 24 stazioni radio e 84 redazioni, sono stati colpite dalle bombe, anche quelle di agenzie come France Press, Reuters e diversi canali della televisione araba. Moltissimi colleghi sono stati feriti, ma non riusciamo a dare numeri precisi, per la difficoltà di far uscire le informazioni. La mancanza di elettricità e connessione internet, infatti, è un problema serissimo per noi, perché non riusciamo a comunicare con l’esterno. Alcuni colleghi sono morti, perché l’esercito israeliano ha rifiutato loro l’uscita da Gaza per ricevere cure mediche e dal 7 ottobre ci sono stati ben 80 arresti di giornalisti. La maggior parte si trova in regime di detenzione amministrativa, cioè senza un’accusa precisa, un processo, né la comunicazione di quando la detenzione cesserà. Inoltre molti colleghi che si trovano nel Nord di Gaza stanno letteralmente morendo di fame: come tutta la popolazione non hanno acqua né cibo, non riusciamo a introdurre nessun tipo di aiuto per loro. Infine, ci sono giornalisti che mancano all’appello, non sappiamo dove siano andati a finire, abbiamo cercato di avere informazioni su di loro tramite la Croce Rossa, ma Israele si rifiuta di risponderci.

Che cosa chiedete in particolare?
SA Sono molte le problematiche, come vedi. Quello che vogliamo è porre fine a questi arresti, che avvengono veramente a decine, anche se è difficile avere più informazioni. I nostri colleghi, inoltre, spesso si ritrovano a lavorare nelle tende, una situazione non ideale né per vivere né per lavorare, perché ci sono piogge, vento, freddo, gli manca il carburante per spostarsi, per cercare di coprire il conflitto, la situazione è veramente difficilissima. La maggior parte di loro è costretta a cambiare posto continuamente, ad andare di tenda in tenda, d’ospedale in ospedale. Chiediamo di essere al sicuro, di essere liberi di fare il nostro lavoro, semplicemente di informare. Chiediamo cibo e acqua, stiamo parlando di diritti fondamentali.

Mentre tutti guardano Gaza, anche in Cisgiordania la situazione è peggiorata, con oltre 400 persone arrestate, ottomila detenute, oltre 1.200 sfollati, a causa soprattutto degli attacchi dei coloni. Quali sono le condizioni per i giornalisti?
SA Non riusciamo a spostarci attraverso le varie città, veniamo continuamente fermati ai checkpoint: abbiamo contato più di 500 attacchi contro i giornalisti in Cisgiordania, ma anche a Gerusalemme. Dal 7 ottobre c’è stata un’escalation, con 60 aggressioni ai danni di giornalisti da parte di coloni pesantemente armati. Ma pestaggi, minacce e aggressioni ci sono sempre stati, anche la mia redazione è stata oggetto di veri e propri raid da parte dell’esercito. Purtroppo per noi non è niente di nuovo, dal 2012 fino al 7 di ottobre abbiamo contato 900 aggressioni ai danni dei giornalisti, ma questa volta abbiamo paura che questa escalation porti a un vero e proprio disastro. Stiamo preparando dei file per la Corte penale internazionale (Cpi), perché, anche se sappiamo che è sottoposta a delle pressioni, è il nostro unico strumento per cercare di punire i responsabili, che siano soldati o politici. Pensiamo che Israele debba assumersi le responsabilità di quello che ha fatto e che ci pensi cento volte prima di aggredire un giornalista che sta semplicemente facendo il proprio lavoro.

Human Rights Watch ha diffuso un report in cui si parla della censura, in particolare di Meta -quindi Facebook, Instagram, WhatsApp e Messenger, cioè i principali social media– verso i profili e i contenuti palestinesi. Si tratta di un’ulteriore difficoltà per il lavoro dei giornalisti palestinesi. Come riuscite ad aggirarla?
SA La censura c’era già prima, ma dal 7 ottobre effettivamente è aumentata e Meta si è macchiata di quelli che io considero dei veri e propri crimini di censura. Abbiamo portato avanti una ricerca su questo: il 50% degli account palestinesi sono stati bloccati, inclusi quelli appartenenti a giornalisti. Ci sono state più di 700mila accuse di cybercrime, un milione per incitamento all’odio, soltanto perché queste persone avevano espresso un sostegno a Gaza o alla Palestina. Ci sono anche delle parole specifiche che sembra non si possano scrivere. Io penso che tutto questo sia un crimine che va contro tutte le regole del diritto internazionale, i diritti umani e la libertà di parola. Sono veramente molto delusa, perché questo conflitto viene spesso riportato come una sorta di scontro di civiltà, una guerra tra i civili occidentali -gli israeliani che sono bianchi, buoni e vittime- e gli incivili e cattivi palestinesi, che sono arabi, hanno la pelle più scura, etc.. Penso che questa cosa sia assolutamente inaccettabile, perché è facile parlare di libertà di stampa, di opinione e di diritto di informare, ma bisogna dare un taglio a questo atteggiamento: nessuno a questo punto può più insegnarci come fare il nostro mestiere, nessuno può insegnare ai giornalisti palestinesi e agli altri la precisione e l’onestà nel riportare i fatti. Tutto questo è un discorso che riguarda proprio il cuore dell’etica del giornalismo e della libertà di parola: quando tutto questo sarà finito, bisognerà fare un bagno di realtà e mi chiedo come queste persone saranno in grado di guardarsi in faccia e allo specchio e quali saranno le risposte che ci saranno date per queste violazioni dell’etica della stampa.

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