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Wael Al Dahdouh. Raccontare l’orrore di Gaza mossi da una “determinazione infinita”

Wael Al Dahdouh alla Camera l'11 febbraio 2025 © Anna Maria Selini

Il capo della redazione di Al Jazeera nella Striscia ha perso dodici familiari sotto le bombe dell’esercito israeliano dopo il 7 ottobre 2023, tra cui tre figli e la moglie. È il simbolo del giornalismo, dentro e fuori Gaza, e della resilienza di un popolo. È stato alla Camera dei deputati per testimoniare l’impatto del dolore e della guerra. E per difendere il mestiere dei reporter, una “professione di morte”

Lo chiamano Al Jabal, la montagna. E ci si sente davvero piccoli di fronte a Wael Al Dahdouh. Non solo per la stazza e lo sguardo di pietra. Mentre racconta, è un po’ come guardarsi allo specchio e inevitabilmente chiedersi: io dove stavo e che cosa facevo, mentre tutto questo avveniva? 

Perché Wael Al Dahdouh non è soltanto il capo della redazione dell’emittente televisiva Al Jazeera nella Striscia di Gaza, ha addosso il peso e la responsabilità dei simboli: simbolo della resilienza di un popolo, quello palestinese, e simbolo del giornalismo, a Gaza e non solo.  

Dovevamo raccontare a chi stava fuori”, dice sospirando e ripetendo la sua storia per l’ennesima volta, mentre il dolore più che lenirsi sembra moltiplicarsi. “Non potevo fermarmi”. Nemmeno dopo aver perso dodici familiari, tra cui tre figli e la moglie, praticamente in diretta tv. “Sono stato io a recuperare il corpo di mio nipote di sei mesi, prima di sapere che lì sotto c’era anche un’altra parte della mia famiglia”.  

Al Dahdouh è stato il protagonista della conferenza stampa “Dentro Gaza. Testimonianza dal fronte”, organizzata dalla deputata Stefania Ascari, coordinatrice dell’intergruppo parlamentare per la pace tra la Palestina e Israele, nella sala stampa della Camera, l’11 febbraio scorso. Con lei, sono intervenuti anche Laura Boldrini, presidente del Comitato permanente della Camera sui diritti umani nel mondo e i deputati Nicola Fratoianni e Dario Carotenuto.  

Tuttora non credo ai miei occhi -ha esordito Al Dahdouh- non credo di essere sopravvissuto e solo ora comincio a realizzare tutto quello che ho visto e vissuto. Se in altre parti del mondo il giornalismo è un fastidio, a Gaza è una professione di morte. Più di duecento dei miei colleghi sono stati uccisi e purtroppo la morte non minaccia solo noi giornalisti, ma anche le nostre famiglie. Come tutti a Gaza”.  

E questo Al Dahdouh lo sa bene: dal 7 ottobre 2023, quando è scattata l’offensiva israeliana “Spade di ferro”, dopo l’attacco di Hamas e altri gruppi armati palestinesi nel Sud di Israele, ha visto morire sotto le bombe israeliane numerosi suoi familiari, amici e colleghi. Ma ha deciso di continuare a testimoniare, anche quando gli è stato proposto di fermarsi.

“Sarebbe stato facile chiedere una licenza -racconta- ma era essenziale per noi giornalisti cogliere tutto quello che succedeva e raccontarlo a coloro che erano fuori da Gaza”. Anche perché, ricorda, dal 7 ottobre Israele ha impedito l’accesso alla Striscia ai giornalisti internazionali, colpendo duramente quelli che stavano dentro Gaza, cioè i palestinesi (ne abbiamo parlato nel podcast La guerra dei giornalisti).  

Noi non siamo una delle parti in guerra, siamo professionisti e siamo protetti dalle leggi internazionali -continua- eppure duecento dei miei colleghi sono stati uccisi, molti dei quali mentre stavano lavorando. Ci muovevamo con cautela, utilizzando tutti i dispositivi di sicurezza (giubbotti antiproiettile, caschi, la scritta “Press” sui veicoli) e spesso con il permesso dell’esercito israeliano per transitare con le telecamere, ma è stato inutile. Come è successo a me, mentre stavo lavorando con il mio collega Samer Abu Daqqa, nella zona di Khan Yunis: lui e altri tre uomini del pronto soccorso sono morti e io sono vivo per miracolo”. 

Colpito alla mano, ancora oggi imbrigliata da lunghi ferri, Al Dahdouh non si sofferma sul missile che l’ha colpito, probabilmente lanciato da un drone, ma racconta l’uccisione “surreale” della sua famiglia, “sfollata, come tutti a Gaza, dopo un ordine di evacuazione delle forze armate israeliane e colpita in quella che doveva essere una zona sicura”. 

Era buio, non c’era elettricità, né i soccorsi. Sono andato a vedere che cosa era successo e chiedevo a tutti chi fosse morto, chi erano i feriti, ma ognuno dava una risposta diversa. La nostra casa era stata bombardata, ho spostato le macerie a mani nude e ho trovato Adam, mio nipote di sei mesi: l’ho preso in braccio e l’ho portato io in ambulanza. Soltanto dopo, ho saputo che sotto le macerie c’erano anche mia moglie, mio figlio e mia figlia. Ho perso dodici familiari, ma allora non sapevo esattamente chi fosse morto. L’onda d’urto dell’esplosione ha fatto finire mia figlia sotto il lavandino della cucina, si sentiva la sua voce e per fortuna il muro della cucina era esterno e in parte crollato. Si è salvata, anche se con delle ferite gravissime. Ci sono voluti mesi per convincerla a vivere di nuovo sotto un muro di cemento”. 

Al Dahdouh parla della moglie e di quanto si sia sacrificata per permettergli di essere “un giornalista famoso”; di Mahmoud, il figlio che studiava giornalismo e che “ha fatto l’ultimo video da sotto le macerie”. Non fa in tempo a parlare di Hamza, l’altro figlio, anche lui giornalista, ucciso, invece, da un drone israeliano, mentre si trovava in macchina con un collega.  

Racconto tutto questo -spiega Al Dahdouh- per far capire il dolore che può prendere le nostre anime, per mostrare a voi la guerra. ‘Che cosa puoi fare di fronte a una cosa del genere?’ mi chiedevo continuamente. Avevo paura di stare davanti alla telecamera, ma avevo una determinazione infinita ed ero attento a dimostrare il più alto grado di professionalità. Questa era la mia risposta. Mi è costato molto a livello umano, è stato spaventoso, molto più spaventoso di quanto potessimo immaginare, ma se c’è una lezione in tutto questo è che bisogna continuare a trasmettere da Gaza, senza fermarsi”.  

Sospira più volte, il dolore e la fatica di raccontarlo traspaiono, ma anche quella che lui chiama “determinazione infinita”. E di fronte a certe domande dei tanti colleghi venuti ad ascoltarlo, non nasconde un po’ di delusione. “Non sono il portavoce di Hamas -risponde all’immancabile quesito su che cosa sia rimasto a Gaza del movimento islamista-. Sono un uomo e sono un professionista che ha cercato semplicemente di fare il suo lavoro. Vorrei che si chiedesse di più della vita della gente di Gaza. Soffrivamo molto per la mancanza di bagni, per esempio. Dobbiamo raccontare questo, dicevo ai colleghi, le cose piccole, perché è la vita degli sfollati la vera guerra, soprattutto delle donne e dei bambini. Tutte le telecamere del mondo non possono bastare per descrivere la vita degli sfollati, la guerra vera è lì. Una notte, vicino a Rafah, mia figlia mi chiama disperata, perché il vento ha sradicato la tenda. Non abbiamo potuto fare nulla e abbiamo passato la notte in macchina. Non solo la mia famiglia, ma tutta Gaza. Ed è questo il pezzo più doloroso della guerra, che va da raccontato: la gente, gli esseri umani, che vanno trattati come tali”.  

Assalito dalle domande dei colleghi, che non nascondono l’ammirazione, Wael Al Dahdouh se ne va senza concedere ulteriori interviste. È provato, chiede dell’acqua, prima di proseguire con altri incontri, tra cui uno a porte chiuse con l’ex presidente del Consiglio, Giuseppe Conte.  

Le montagne vengono colpite, in parte possono crollare, ma non si spostano, né possono essere deportate. Come i palestinesi di Gaza, assicura Al Jabal. 

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