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A proposito delle “nuove” centrali nucleari a fissione

© Jakob Madsen - Unsplash

Politici, imprenditori e giornalisti italiani insistono per promuovere il ritorno al nucleare, distribuendo rassicurazioni confezionate da esperti selezionati. Un’azione di propaganda che distorce tempi, costi, insicurezza e impatti. Remando contro l’impetuosa (ed economicamente conveniente) crescita della produzione di energia da fonti rinnovabili. I dati messi in fila dal fisico Bruno Magatti sono chiarissimi

È sempre più insistente la voce di chi vorrebbe il rilancio in Italia dei reattori nucleari a fissione. Si tratta di un’azione di propaganda mentre altrove, in Germania per esempio, questa tecnologia è diventata l’icona di una fase superata dello sviluppo tecnologico e si investe decisamente nelle fonti di energia rinnovabile. Anche negli Stati Uniti le rinnovabili hanno aumentato la produzione di 140 Gigawatt (GW) negli ultimi sette anni con una prospettiva di ulteriori 450 GW nei prossimi sette.

Al partito del rilancio della fissione nucleare sono iscritti politici, imprenditori e giornalisti. Distribuiscono rassicurazioni, confezionate da esperti selezionati, ripetono una lezione imparata a memoria, per lo più privi degli strumenti per decifrarla. Il tutto profuma di ideologia. All’orizzonte della ricerca avanzata, quella vera, c’è chi lavora per i reattori a “fusione” mentre per quanto concerne la “fissione” si tratta di un abito nuovo per tecnologie già messe alla prova. 

Che spesso ignorano le sue criticità, a iniziare dal suo ruolo nello sviluppo di armi nucleari. Può essere utile non dimenticare che il plutonio 239, materia prima della “bomba atomica”, non esisterebbe senza i reattori nucleari a fissione. Se, infatti, si esclude qualche modesta traccia in rocce contenenti uranio, tutto il plutonio 239 con cui abbiamo a che fare è stato generato all’interno dei reattori a fissione per cattura di un neutrone da parte di un nucleo di uranio 238 (che non è fissile ed è quindi inutilizzabile per questo scopo) cui fanno seguito due successivi decadimenti beta. Le “potenze nucleari” sono quindi gli Stati che hanno più investito, con precisa finalità, nella filiera delle centrali a fissione. Non è un caso che ci sia tanta ostilità allo sviluppo del nucleare civile in Iran. 

In secondo luogo si tratta di un settore, quello dei reattori a fissione, in cui è difficile scovare vere novità. Si trovano, piuttosto, variazioni sul tema e la sostanza di questa tecnologia è quanto messo a punto nel secolo scorso.

Ogni tecnologia è dichiarata “sicura” finché non si verifica un “incidente”; nel caso del “nucleare” si è dovuta però usare la parola disastro. Quanto accaduto a Chernobyl e a Fukushima ha dato la possibilità di comprendere la portata delle conseguenze economiche, biologiche e sanitarie di un incidente nucleare grave in una centrale a fissione: si deve parlare di incalcolabili costi umani, di migliaia di chilometri quadrati di territorio resi inabitabili, di deportazioni di decine di migliaia di persone residenti in un raggio di 30 chilometri dalle centrali “incidentate”, della rottura traumatica di tutte le relazioni sociali, di stress, ansia e depressione. 

Una stazione radio abbandonata nei pressi di Chernobyl © Yves Alarie – Unsplash

L’essenza del marketing è l’esibizione di una qualche “novità”. Questo motiva, ad esempio, la scelta di un marchio ottenuto dall’unione di “new” e “nucleo”. La suggestione di una novità è rafforzata dall’uso di espressioni quali “di ultima generazione” e, più ancora, “reattori di quarta generazione”. Non si va molto lontano da articolati progetti di restyling, ma il messaggio è efficace.

Ce ne fornisce una prova il presidente del Friuli-Venezia Giulia, Massimiliano Fedriga, laureato in Scienze della comunicazione e quindi non colpevole di una certa confusione tra centrali a fusione e ciò di cui si parla oggi. L’affermazione affidata alla sua segreteria è il sottile ma esplicito “rinforzo” di un messaggio ambiguo che, più o meno inconsapevolmente, culmina in una implicazione paradossale: “sul nucleare siamo favorevoli, a patto che sia di ultima generazione e quindi sicuro”. 

La narrazione postula che costi, impatto e rischi si ridurrebbero con reattori di piccola taglia. I cosiddetti “piccoli reattori” (Small reactors, Sm) sono versioni ridotte di quelli di grande potenza. Si aggiunge, poi, “modulari” (Smr) e in tal modo si fa immaginare che da qualche parte ci sia una, oggi inesistente, fabbrica di componenti da assemblare come i mattoncini del “Lego”.  

L’assessore all’Ambiente del Friuli-Venezia Giulia fa capire quanto il messaggio sia stato efficace. Egli, infatti, afferma: “credo che i mini-reattori nucleari modulari per la produzione futura di energia, considerati quasi a ‘impatto zero’ per le loro dimensioni ridotte, tempi più veloci di insediamento e con produzione di scorie ridotta al minimo possano essere lo strumento e il compromesso più utile in questo momento per garantire la transizione energetica”.  

Premesso che oggi non ci sono elementi per dimostrare che quattro reattori da 300 Megawatt (MW) di potenza costerebbero meno di uno da 1.200 MW, è bene osservare che l’ipotesi di reattori di taglia ridotta non è affatto nuova: c’è chi da tempo ha suggerito di fornire il calore prodotto dalla fissione direttamente ad alcune industrie per le quali la decarbonizzazione è problematica (hard-to-abate) come cementifici, cartiere o fabbriche di ceramiche. Sta di fatto che oggi c’è un solo prototipo, in costruzione, in Cina. 

Il più recente “World nuclear industry status report 2024”, pubblicato a settembre 2024, riferisce che la start-up americana NuScale ha, nel novembre scorso, annunciato di aver cancellato il suo progetto bandiera (Carbon free power project) che aveva dato fiato alle trombe dei propugnatori degli Smr e dei reattori ad “acqua non-leggera”. L’annuncio segue di pochi mesi l’ammissione che i costi del progetto erano lievitati da 5,3 miliardi di dollari a 9,3 miliardi. 

Nel numero di giugno 2024 di Futuro prossimo, invece, ancora si fantastica sul progetto di un reattore da 345 MWe (Natrium), alimentato con High-assay low-enriched uranium, un materiale che contiene una frazione di uranio 235 tra il 5% e il 20%. La “novità” sarebbe l’utilizzo del sodio metallico come refrigerante. Senza perderci nei dettagli, due osservazioni: l’idea di usare metalli liquidi come refrigeranti (sodio o piombo) è degli anni Cinquanta e il sodio metallico può accendersi a contatto dell’acqua o dell’aria. Ci sono precedenti tutt’altro che incoraggianti come il reattore giapponese Monju la cui dismissione (che richiederà 30 anni) è iniziata nel 2018 dopo ripetuti incidenti e avendo prodotto energia elettrica commerciale per meno di due ore. 

Una conferma del fatto che tutto ruota intorno a qualcosa che non c’è e non ci sarà per molti anni ancora, ci viene dal presidente dell’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile (Enea), Gilberto Dialuce. In un’intervista ad Agenzia Nova del 19 ottobre 2024 conferma che “Enea collabora per sviluppare i codici di calcolo e alcune componenti tecnologiche”, per tecnologie che “dovrebbero essere disponibili intorno al 2035”, ma con onestà rileva che per i reattori di quarta generazione si dovrà attendere un po’ di più, “intorno al 2040/2045”.  

Nei minerali la frazione utile (detta fissile) di uranio 235 è modesta, intorno allo 0,7%; il resto è uranio 238. Per portare la frazione di uranio 235 ai livelli necessari per una centrale nucleare (intorno al 5%) è stato messo a punto un processo, detto di arricchimento. Lo scarto di questo processo, chiamato uranio impoverito, è utilizzato, tra l’altro, per realizzare ogive di proiettili capaci di alto potere di penetrazione. Degli effetti dell’inalazione di polveri che contengono uranio impoverito ne sanno qualcosa i familiari di militari italiani che hanno intentato cause legali per vedere riconosciuta la correlazione tra la morte dei loro cari e l’uso di questo materiale a fini militare. A quanto detto del plutonio 239 occorre aggiungere che si tratta di una sostanza di elevatissima radio-tossicità (inalarne pochi milligrammi mette a rischio di conseguenze drammatiche). 

L’ultima novità per le prossime centrali a fissione è la proposta di usare come “combustibile nucleare” un mix di ossidi di uranio 238 e di quel plutonio (fissile) che, abbiamo detto, viene generato nei reattori a fissione. Questo materiale è indicato con l’acronimo Mox. Ma anche l’idea di usare come “combustibile nucleare” lo stesso plutonio generato nei reattori non è affatto nuova. La tecnologia dei reattori cosiddetti “auto-fertilizzanti” è stata sviluppata con l’obiettivo di utilizzare come materiale fissile parte del plutonio generato nel reattore stesso: di questa categoria fanno parte il reattore in dismissione Monju, di cui abbiamo accennato sopra, e il francese Superphenix, attivo solamente dal 1986 al 1998. Oggi si immagina di recuperare il plutonio dai convenzionali reattori ad “acqua leggera” attivi per produrre Mox, mettendo a punto un processo delicato, complesso e oneroso. 

La centrale nucleare giapponese di Monju © Wikimedia commons

Una soluzione che inoltre non eliminerebbe il problema delle cosiddette scorie radioattive. I reattori di “nuova generazione” che utilizzassero Mox produrrebbero ancora isotopi radioattivi nelle medesime proporzioni. Ogni nucleo del quale si provoca la fissione ne genera, infatti, una coppia.

I meno giovani impararono a conoscere quelli più pericolosi per l’organismo rilasciati in atmosfera nel disastroso evento di Chernobyl (come Iodio 131, Cesio 137, Stronzio 90). Specifiche e ampie considerazioni meriterebbero, al riguardo, i ripetuti messaggi tendenti a suggerire sottostime dell’impatto sanitario di questo materiale radioattivo rilasciato dall’incidente di Chernobyl. È chiaro che una sottostima dell’impatto sanitario e sociale permette di contenere il “costo reale” di ogni MWh di energia prodotta. 

Il tutto mentre l’energia nucleare sta diventando sempre meno conveniente rispetto alle alternative rinnovabili. I costi dell’energia dalle diverse fonti sono continuamente monitorati. Un dato davvero sorprendente è la loro variazione dal 2009 al 2024. Ebbene, dal 2009 al 2024 mentre il costo di un Megawattora (MWh) di energia nucleare è aumentato del 49% il costo di quella solare è diminuito dell’83% e di quella prodotta dal vento (off-shore) del 63%. Il costo di un MWh di energia nucleare è infatti passato da 123 dollari a 182 dollari mentre il costo della stessa unità di energia solare è sceso da 359 dollari a 61 dollari e quella prodotta col vento da 135 dollari a 50 dollari. Il dato ci informa, inoltre, che la stessa energia se ottenuta dal sole costa un terzo di quella nucleare (e meno ancora se proviene da impianti eolici).  

Questi dati certificano la convenienza. È chiaro, infatti, che il rischio di incidenti con rilascio di isotopi radioattivi prodotti nella fissione nucleare impone strutture capaci di resistere anche ad eventi naturali estremi, militari o terroristici quale che sia il tipo e la potenza del reattore. Ridurre la potenza a un terzo (o più) non riduce in proporzione i problemi e i costi conseguenti (si veda quanto già riferito sopra riguardo al progetto Smr di NuScale già citato in questo articolo), senza dimenticare che sarebbero necessari quattro reattori da 300 MW per disporre di una potenza di 1.200 MW.  

Due terzi dell’energia liberata nella fissione è calore da smaltire nell’ambiente (a solo titolo di confronto si pensi che una centrale a ciclo combinato a metano ha un rendimento del 60%). Per questo le centrali sono costruite in prossimità di grandi bacini o corsi d’acqua in grado di portar via questo calore e devono essere spente in tempi di siccità. In un’intervista rilasciata di recente si rassicuravano i cittadini promettendo loro contatori Geiger per rilevare come la presenza di un reattore non modifichi la radiazione naturale di fondo cui siamo sempre “esposti”.  

In caso di incidente, tuttavia, il problema non è l’esposizione alla radiazione emessa da una sorgente esterna all’organismo bensì la contaminazione. Parliamo dell’inalazione o dell’ingestione di isotopi radioattivi e della loro permanenza nell’ambiente e negli organismi viventi con ingresso nel ciclo alimentare e biologico per moltissimi anni. In caso di eventi estremi, gli effetti sulla salute devono essere ricondotti all’accumulo e al permanere di isotopi radioattivi in specifici organi e tessuti.

La produzione di energia da fonti rinnovabili, però, è intermittente. Delle centrali nucleari si dice che funzionerebbero senza interruzione (anche di notte, quando la domanda di energia si riduce e per questo la Francia è costretta a vendere il suo surplus). Tuttavia, siccità, manutenzioni programmate, imprevisti e deterioramento dei materiali rendono discontinua anche la produzione da nucleare. Il dato, riferito all’anno 2023, riferisce che dei 56 reattori presenti in Francia uno solo ha funzionato senza interruzione tutto l’anno. Sono stati, invece, mediamente 127 i giorni di inattività per reattore per un totale di 7.103 “giorni-reattore”. 

Mentre assistiamo a un insistente battage per promuovere il ritorno al vecchio nucleare da fissione, nessuno nel nostro Paese ha ancora trovato un sito nel quale realizzare il Deposito nazionale del combustibile irraggiato degli ex reattori nucleari italiani che l’Inghilterra ci restituirà nel 2025.

Nel mentre le rinnovabili continuano a crescere. Nel nostro Paese il mix produttivo di eolico, fotovoltaico e idroelettrico nel primo semestre del 2024 risulta incrementato del 27,3% rispetto al primo semestre 2023. Nella prima metà del 2024 il 52% del fabbisogno energetico nazionale è stato soddisfatto da energie rinnovabili. Risultato analogo si rileva in Europa dove eolico (cresciuto del 7%) e fotovoltaico (cresciuto del 20%) hanno soddisfatto il 31% della domanda di energia superando gas e carbone (complessivamente 27%).  

Grazie a questo incremento le emissioni di CO₂ sono ulteriormente calate del 31% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Ciò dovrebbe parlare anche agli ostinati, ai quali vale la pena di ricordare un non banale risvolto socioeconomico.

Il nucleare fissile è anche investimento di enormi capitali con ritorni su tempi molto lunghi e i prezzi di vendita sono, in parte, remunerazione del capitale. Produzione, vendita, installazione e manutenzione di impianti fotovoltaici rappresentano, invece, opportunità di lavoro e di ricchezza distribuite. 

Bruno Magatti è laureato in Fisica a Pavia e specializzato in radioprotezione e tecniche radio-isotopiche all’Università di Bologna. È diplomato alla scuola di perfezionamento in Fisica sanitaria e ospedaliera dell’Università di Milano e iscritto all’elenco nominativo degli “esperti qualificati in radioprotezione”. È stato docente di Fisica in licei scientifici e per molti anni ha collaborato con il Centro di cultura scientifica “A. Volta” di Como in qualità di autore in progetti di divulgazione scientifica

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