Diritti / Intervista
Moira Millan. La lotta dei popoli tellurici contro il terricidio
La scrittrice e sceneggiatrice mapuche argentina racconta nel suo ultimo libro l’assalto di multinazionali, governi e ordini confessionali contro le terre ancestrali indigene. Un’aggressione estrattivista che assume le dimensioni di un vero e proprio “terricidio”. Ma una resistenza antipatriarcale, distante da approcci eurocentrici e decolonialismo di moda, è possibile. Ripensando la democrazia in senso orizzontale
L’appuntamento per l’intervista con Moira Millan viene cambiato diverse volte. L’attività militante della scrittrice e sceneggiatrice weichafe mapuche è vorticosa e la fatica a volte si fa sentire.
Ci vediamo però all’Huerto Roma Verde, nel quartiere Roma Nord, a Città del Messico. Un piccolo angolo di verde in una città mangiata dal cemento che non per nulla viene chiamata “mostro” da chi (non) la abita. Moira ha una maglietta rossa dell’Esercito zapatista di liberazione nazionale (Ezln), è stanca e nonostante una brutta allergia è disponibile, mentre è seduta a mangiare, a discutere del suo ultimo libro: “Terricidio”.
Millan, che cos’è per te il terricidio?
MM È il nome che abbiamo dato al nostro dolore, un dolore che non si può capire attraverso la prospettiva a compartimenti stagni con cui il sistema legge la vita. Parliamo di genocidio, di ecocidio, di epistemicidio e di femminicidio ma così facendo chi non si sente colpito dal fenomeno reagisce come se quel che accade non lo riguardi. Ma tutte le vite sono importanti, tutte interagiscono e fanno parte dell’ordine cosmico. Per noi il terricidio è dare un nome a tutto ciò che non è considerato parte necessaria e preziosa della vita. Parliamo dei luoghi dove vivono le popolazioni originarie, dove ci sono i nostri fratelli e le nostre sorelle, dove si incontra la forza e la ricchezza della natura. Luoghi violentati dalle grandi miniere, dalle grandi opere, dai progetti estrattivi ma anche aggrediti dalle chiese evangeliche che cercano di cancellare gli spazi spirituali tradizionali. C’è una neo-colonizzazione nei territori indigeni fatta di un cristianesimo-sionista pieno di odio che sta spazzando via anche la nostra spiritualità, i nostri modi ancestrali di parlare con la terra. Terricidio ci dice di ciò che sta accadendo.
Il terricidio è una forma di colonizzazione?
MM Provo a dimostrare che il territorio e i popoli sono un’unità indivisibile. Quando un territorio è colpito, lo è anche la cultura, e quando un elemento della cultura scompare, anche il legame con il territorio rischia di sparire. Questa unità indivisibile viene attaccata dal sistema capitalista. Terricidio caratterizza il momento storico che stiamo vivendo da una prospettiva ancestrale, di genere e di speranza. Non ci appartiene il discorso apocalittico e disfattista decoloniale, non appartiene alle persone che lottano. Sono frasi, slogan e letture che l’invasore, il terricida, sta inoculando nella memoria collettiva. Succede che chi detiene il potere, queste persone malvagie, creano teorie e invado i territori proponendo “formule magiche” per uscire dalla povertà. In questa confusa narrazione emerge la rassegnazione. Ci si chiede che cosa possiamo fare, come possiamo cioè fermare questo mega-progetto, questa diga o le speculazioni delle imprese, se loro vincono sempre. Ma non è vero, non vincono sempre. Sono abili a nascondere le loro sconfitte. Terricidio dice alle persone “in questo posto è successa questa cosa e hanno sconfitto il potere. E anche in quest’altro hanno evitato la costruzione del mega-progetto”. I nostri alleati sono gli animali, il vento, il sole. Questi racconti, basati su dati reali, mostrano che è in corso una guerra di civiltà, dove ci sono i terricidi e i popoli tellurici. I popoli tellurici si stanno unendo al di là dei colori della pelle, delle lingue, degli Stati, delle geografie e grammatiche politiche. Sappiamo di avere responsabilità e allo stesso tempo diritti tra gli altri quello di riconnetterci con la terra, con tutta la vita, e di generare una civiltà migliore. Diamo all’umanità una possibilità, perché la Terra non ne ha bisogno.
La decolonialità è diventata un po’ una moda?
MM Sì, c’è una sorta di appropriazione culturale, di estrattivismo culturale, che segna l’accademia. Alcuni settori dell’università creano neologismi, categorie, narrazioni. Osservano le profonde riflessioni sviluppate dai popoli oppressi, razzializzati, e invasi dalla colonialità. L’accademia ha preso questi discorsi, le nostre narrazioni, i racconti orali dei popoli. Hanno così iniziato a parlare di decolonialità da un punto di vista privilegiato ed eurocentrico. L’accademia è quel luogo dove risiede il potere di decidere che cos’è conoscenza, che cosa sia scienza e che cosa no, che cos’è il rito e che cos’è la spiritualità. Siamo stati, tutte e tutti, troppo ossequiosi con il mondo accademico.
Che cosa significa essere mapuche?
MM Mapuche significa “gente della terra”. Ci sono le persone, le persone sono la terra, ma essere mapuche significa capire che il territorio ci abita e noi abitiamo un territorio. In questo momento il Leufo, il fiume dove vivo, parla attraverso di me, il Lemu, la foresta dove vivo, parla con me. Non potrei mai vivere in un luogo diverso dal mio territorio, mi ammalerei come è successo in questi giorni con la mia allergia qui a Città del Messico. Questo succede a molti miei fratelli e sorelle mapuche. Essere mapuche è un privilegio, perché siamo depositari di molte conoscenze e strumenti per combattere il capitalismo. È anche una condizione difficile da sopportare perché subiamo una costante aggressione dei nostri territori e delle nostre vite. Non sai nemmeno quante minacce di morte ho ricevuto. Poco tempo fa hanno condannato agli arresti domiciliari a Matías Santana accusato di essere un usurpatore nel territorio reclamato dal Lof wingkul lafken mapu. La rivendicazione del nostro territorio ha avuto come conseguenza prigione, persecuzione, e repressione. Quindi essere mapuche non è facile, ma allo stesso tempo è meraviglioso.
Quali sono le relazioni politiche che state sviluppando?
MM Ci sono persone disposte a difendere la vita dei fiumi o delle montagne. Noi ci uniamo a chi come noi lotta contro le grandi opere. Lo stesso vale per il femminismo. Come donna mapuche sono antipatriarcale, non sono femminista, e il mio punto di incontro con i movimenti femministi sta nella lotta al patriarcato. Molte femministe sono antipatriarcali ma non sono anticoloniali, non sono antirazziste.
E con l’elezione di Javier Milei a presidente dell’Argentina è cambiato qualcosa?
MM Un po’. E dico un po’, perché la repressione delle nostre lotte esisteva anche con i governi precedenti. Elías Garay (giovane mapuche assasinato nel novembre 2021 nella Patagonia argentina, ndr) è stato ucciso durante il Governo Fernández. Con Milei però è successo che è aumentata la militarizzazione e la persecuzione del popolo mapuche. In più Milei sta serrando i ranghi con lo Stato sionista di Israele aprendo le porte a Mekorot, l’azienda che gestisce l’occupazione dell’acqua del popolo palestinese. In Chubut, nella provincia di Río Negro, nella provincia di Neuquén, e a Santa Cruz stanno cercando di privatizzare l’acqua e darla in gestione a Mekorot. Milei ha fatto dell’odio una politica di Stato.
Milei rappresenta l’incontro tra destra radicale e capitalismo più estremo?
MM Prendo ad esempio i processi di narco-territorializzazione, e non parlo solo di quel che accade in Messico o in Colombia, perchè la narco-territorializzazione è il preludio di tutti i saccheggi e i totalitarismi che stiamo subendo nei territori. È una costante del capitalismo moderno. Per questo non credo nella democrazia rappresentativa e penso che dovremmo cercare modelli di democrazia e partecipazione diretta, orizzontale. Dobbiamo capire come migliorare la democrazia. Ad esempio dovremmo rendere il sistema di rappresentanza elettorale più democratico e slegarlo dall’egemonia dei partiti politici. Permettere ai movimenti sociali di presentare le loro agende, le loro piattaforme elettorali, senza essere oppressi dalla burocrazia.
Può esistere un mondo plurinazionale, un mondo che riconosca popoli e popolazioni nel quadro del capitalismo?
MM Il concetto di nazione non ci appartiene. Come lo Stato, è una questione coloniale. Io non sogno un mondo plurinazionale ma una civiltà che chiamo tellurica, in cui ci basiamo sul rispetto della terra, sull’organizzazione cosmogonica e sul rispetto della vita. Questo sogno è lontano da ciò che vedo, ma iniziare a parlarne è fondamentale perché sono le parole a costruire i mondi. Iniziamo a parlarne.
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