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L’Argentina senza bussola. I primi effetti dell’anarco-capitalismo di Milei

Una vista di Buenos Aires © Nestor Barbitta - Unsplash

Il presidente eletto a fine 2023 non è la destra comune a cui siamo abituati a pensare. “È una destra economica nel senso che usa lo spazio politico per arrivare a eliminare qualsiasi istituzione pubblica per installare una società fondata sul mercato capitalistico”. E lo sta dimostrando pienamente, spiega l’economista Francesco Vigliarolo che insegna a La Plata

Nelle ultime elezioni in Argentina l’attenzione è stata più volte rivolta alla “battaglia culturale” che bisognava vincere. Lo è ancora oggi, da parte dei media e del governo. Ma di quale battaglia culturale stiamo parlando? È senza dubbio quella tra la terza ondata populista e l’anarco-capitalismo.

Anarco-capitalista è, infatti, la definizione che dà di sé stesso il nuovo presidente della nazione, Javier Milei, eletto con il 56% dei voti contro Sergio Massa, esponente quest’ultimo del peronismo che da 40 anni, salvo qualche interruzione, governa il Paese.

Da entrambe le parti la concezione dello Stato è al centro del dibattito. Per il populismo di impronta laclaiana, lo Stato doveva incorporare pezzetti della società civile per legittimarsi ed è quello che è successo negli anni del kirchnerismo, esasperando la dialettica tra buoni e cattivi, chi era dentro il governo, confuso per Stato, e chi no. Questo atteggiamento ha esacerbato senza dubbio negli anni addietro il dibattito sociale, distruggendo la sana dialettica politica dove chi criticava il governo era tacciato di nemico della democrazia e aggredito. È in questo contesto che nasce Milei, prodotto senza dubbio della comunicazione di massa, degli show televisivi, che irrompe nelle case degli argentini con una parola gridata fino all’esasperazione: libertà. Ma la libertà di cui parla è legata anche a una sua idea di anarchia e capitalismo: si definisce con orgoglio un anarco-capitalista.

È interessante capire a che cosa faccia riferimento e perché lo Stato sia chiamato di nuovo in campo. Lo Stato mileiano è infatti bersaglio delle sue politiche al contrario, cioè per lui va annientato. “Lo Stato è un covo di criminali”, esprime con forza ovunque lo si ascolti, anche in Italia nell’intervista rilasciata a Nicola Porro. Le sue teorie sono radicate in autori come Milton Friedman, Murray Rothbard e Robert Lucas. Ma colui da cui attinge le sue idee più radicali sotto questo aspetto è senza dubbio Rothbard, autore minore ma fortemente tenuto in considerazione dall’attuale presidente.

Per capire chi fu come attivista politico e sociale, si può dire che Rothbard si oppose all’egualitarismo e al movimento per i diritti civili, andò contro il voto e l’attivismo delle donne ritenute responsabili della crescita dello Stato sociale e tra le sue amicizie contò anche il negazionista dell’Olocausto Harry Elmer Barnes. Sul piano accademico abbracciò la prasseologia di Ludwig von Mises che teorizzava, appunto, l’anarco-capitalismo, una filosofia politica e teoria economica antistatalista, liberista che puntava ad abolire gli Stati centralizzati a favore di società senza Stato con sistemi di proprietà privata imposti da agenzie private. Tutto ciò sulle basi dei principi del libero mercato e della proprietà privata.

Milei non è perciò la destra comune a cui siamo abituati a pensare. È una destra economica nel senso che usa lo spazio politico per arrivare a eliminare qualsiasi istituzione pubblica per installare una società fondata sul mercato capitalistico. Lo sta dimostrando pienamente.

Ha iniziato a fare ingenti tagli allo Stato, licenziamenti di massa dicendo di applicare metaforicamente la motosega che invece ha mostrato realmente in campagna elettorale come simbolo della sua rivoluzione antistatale contro la casta. Ha fatto tagli all’educazione pubblica, ha congelato di fatto il bilancio delle Università pubbliche, proprio il 23 aprile di quest’anno c’è stata una grande marcia universitaria, con una partecipazione altissima. Vuole eliminare la Banca centrale, responsabile, secondo lui, dell’inflazione. Ha liberalizzato le assicurazioni sanitarie, gli affitti senza ormai alcuna regolazione, ha eliminato i sussidi ai servizi pubblici, luce e gas, ponendoli sul mercato. Vuole “dollarizzare” il Paese facendogli perdere completamente ogni sovranità monetaria. Ed è addirittura a favore del mercato degli organi e di tutto ciò che risponda a un accordo tra privati. Odia in assoluto le parole socialismo o keynesiano, due termini che lo fanno andare su tutte le furie e che gli hanno regalato il nomignolo di loco (pazzo, ndr).

Dopo queste prime politiche economiche insieme a una svalutazione del 130% che ha tagliato le gambe al potere d’acquisto dei cittadini, lo stesso Fondo monetario internazionale è rimasto interdetto e ne ha richiamato l’attenzione dicendo che aveva fatto più di quello che gli si richiedeva. Oggi si stima che ci siano circa un milione di nuovi poveri al mese, il consumo è caduto precipitosamente, le piccole e medie imprese stanno chiudendo, i supermercati hanno di nuovo un aumento della domanda di prodotti di seconda e terza scelta.

A fine aprile sulla rete nazionale il presidente ha annunciato anche un surplus fiscale pubblico che non si registrava dal 2008: avendo tagliato quasi tutto era forse intuitivo aspettarselo. Un’altra sua ossessione è il “deficit zero”. Ha annunciato anche un abbassamento dell’inflazione mensile, ma i prezzi dopo la svalutazione sono andati alle stelle (250% di inflazione annuale) ed è normale che il valore dei beni dopo alcuni mesi si assesti per poter essere venduti, perché quello che si è ridotto è solo il salario. L’Argentina, stando alla Commissione economica per l’America Latina e i Caraibi (Cepal), registra oggi il secondo peggior salario minimo della Regione, pari a 194 dollari.

Il Paese passa così da un estremo all’altro, come è di suo solito da diversi decenni, facendo difficoltà a fare sintesi. Dallo Stato usato per manipolare la società allo Stato da eliminare. Non si riesce a costruire uno spirito istituzionale sano che riesca a combattere, prima di tutto, la corruzione endemica, il vero problema dell’economia e della società argentina. Non si riesce a trovare neppure modelli economici diversi da quelli meramente commerciali. Le esperienze dopo il 2001 sono rimaste di nicchia. Le fabbriche recuperate che proponevano un’economia autogestita e di territorio non sono mai riuscite a fare il salto di qualità. Tutto ciò ci dice solo che fallisce ancora una volta la politica argentina, in un Paese pieno di risorse che potrebbe invece fare tantissimo.

Si ripetono le dicotomie e le frammentazioni. Da una politica manipolatrice delle masse a una a distruttrice delle istituzioni. E ciò che più preoccupa è che con queste destre ultraliberiste e anarco-capitaliste, il vero assente è un modello economico alternativo. Le sinistre hanno perso la loro battaglia, anche sul piano culturale, dopo la caduta del muro di Berlino. Occorrerebbe forse puntare su un’economia di diritti e non più di consumo, un’economia che garantisca un nucleo di diritti comuni a tutti i cittadini permettendo a tutti la piena vita democratica, basata su un assetto istituzionale che ha come finalità non quella di legittimare partiti o movimenti ma di rispondere alla domanda dei beni e servizi essenziali dei cittadini, coniugando le libertà con la qualità dei processi democratici, come Amartya Sen, Nobel per l’economia, già sosteneva tanti anni fa.

Francesco Vigliarolo insegna Economia regionale presso l’Università Cattolica di La Plata, in Argentina

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