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“La fabbrica dei sogni”. Il romanzo sulla Gkn, alla ricerca di una coscienza collettiva
Valentina Baronti è arrivata ai cancelli di Campi Bisenzio nell’estate 2021 da cronista e da curiosa, appena dopo l’annuncio dei licenziamenti. Non se n’è più andata, riscoprendo nella lotta degli operai uno spirito che la sua generazione aveva perduto. E che oggi ha deciso di custodire e raccontare con la leggerezza della narrativa
Una lotta operaia del terzo millennio che ha scosso le coscienze e alimentato non solo cortei e manifestazioni, ma anche una voglia di fare e di cambiare l’ordine delle cose che pareva scomparsa. Alla Gkn di Campi Bisenzio (FI) l’assemblea permanente seguita ai licenziamenti del 9 luglio 2021 va ancora avanti ed è una storia così ricca di fatti, emozioni, suggestioni che vale davvero un romanzo.
Come quello scritto da Valentina Baronti: “La fabbrica dei sogni” (edizioni Alegre). Un testo che mescola realtà e finzione, nel tentativo (riuscito) di cogliere la sostanza ma anche le sfumature di una vicenda che ha già ispirato canzoni e opere teatrali.
Attraverso la storia della protagonista, Agata, e le lettere dell’autrice a giovanissimi interlocutori, “La fabbrica dei sogni” racconta la riscoperta dell’impegno civile e politico di una donna disillusa, il suo recupero di una cultura personale e familiare working class, senza dimenticare l’importanza delle emozioni, dei sentimenti, delle relazioni. Valentina Baronti è arrivata alla Gkn nell’estate 2021 da cronista e da curiosa: oggi è una delle addette stampa del Collettivo di fabbrica, nonché vicedirettrice del giornale di strada fiorentino Fuori binario; in più, lavora come impiegata comunale.
Valentina, chi è Agata?
VB È un personaggio fortemente ispirato alla mia esperienza personale, ma non interamente. Attraverso lei, ho voluto proporre una storia che ripercorre il vissuto di tante persone della mia generazione e anche di coloro che ho conosciuto in fabbrica. Ho voluto esprimere l’esperienza del precariato, degli studi conclusi prima dell’università: Agata, infatti, si è fermata al diploma, io invece mi sono laureata -in Storia contemporanea- ma nel mio paese, nelle campagne fiorentine, sono stata tra le prime a raggiungere questo titolo di studi. Nella mia generazione, i ragazzi della classe operaia che andavano all’università erano veramente pochi, specialmente in provincia. In Agata c’è molto di me, ma nel libro ci sono parti inventate, che sono servite anche a me per “mettere a posto” le tante emozioni suscitate da questa realtà di lotta.
Agata è rappresentativa di una generazione anche in senso politico?
VB Credo di sì. In Toscana in tanti eravamo giovani figli di operai e contadini con il diploma di quinta elementare che attraverso il Partito comunista italiano (Pci) erano riusciti a crescere anche dal punto di vista intellettuale. Ma quando siamo diventati grandi, quando è arrivato per noi il momento di proseguire l’esperienza politica e sindacale dei nostri genitori, ci siamo trovati senza il Pci e in una realtà politica, sociale e di lavoro profondamente cambiata. Ci siamo ritrovati tutti orfani. Toccava a noi, ma intorno non c’era più niente.
Qual è stato il tuo percorso di impegno politico?
VB Sono cresciuta nel mondo dei social forum. Al tempo della rivolta di Seattle, nel 1999, ho cominciato a seguire il movimento, le prime iniziative e poi sono entrata nel Firenze social forum, lì c’è stata la mia formazione politica. Mi sono anche iscritta al Partito della rifondazione comunista, ma sempre all’interno del mio percorso nel Firenze social forum.
Poi c’è stato il distacco…
VB Quando il movimento ha perso forza, quando sono cominciate le spaccature interne, ho perso progressivamente la voglia di partecipare; non vedevo più una visione d’insieme e per questo mi sono allontanata. Non ero mai stata interessata a partecipare a un piccolo gruppo, scollegato da un progetto più generale. E poi in quella fase mi ero appena laureata e mi sono concentrata sulla mia vita personale: la ricerca di un lavoro, l’indipendenza dalla famiglia. Certo, ho continuato a seguire le vicende politiche e di movimento, ma ero più un’osservatrice che un’attivista. Poi è arrivata la Gkn.
Che cos’ha di speciale per te questa vicenda?
VB Ebbi immediatamente la sensazione di una grande capacità di guardare oltre la specifica vertenza e di una voglia di tenere unite tante istanze diverse. Ricordo il primo comizio in piazza Santa Croce a Firenze, pochi giorni dopo i licenziamenti del 9 luglio 2021: quando prese la parola un operaio del Collettivo di fabbrica, dopo gli interventi politici e sindacali istituzionali, capii subito che si trattava di una storia diversa da tutte le altre e che potevo trovarmi a casa.
Che cosa ti colpì in particolare?
VB Il fatto che in quell’intervento, nonostante la rabbia del momento, già si guardasse oltre se stessi, senza sentirsi diversi o speciali, ma coscienti d’essere inseriti in un sistema economico e sociale in decomposizione. In quello stesso intervento si diceva chiaramente che il responsabile di quanto accaduto non era la singola multinazionale; bisognava guardare all’intero sistema, allo stato, alla politica, alle leggi che permettevano ai proprietari di Gkn, il fondo Melrose, e prima di loro a tanti altri, di agire in quel modo.
Passati due anni e mezzo che cosa resta di questo approccio?
VB È più vivo oggi di allora. Il discorso del Collettivo di fabbrica è ancora più ampio. Sono stati stretti rapporti nuovi, prima impensabili, per esempio con i giovani ecologisti di Fridays for future, con studenti, ricercatori e studiosi universitari, intellettuali, generazioni diverse di attivisti. C’è stato un abbraccio solidale straordinario da parte di migliaia di persone, un abbraccio sempre più forte. E anche il 31 dicembre scorso, con migliaia di persone al presidio, tra cui tantissimi giovani e tante facce nuove, venute da lontano. Rispetto a due anni e mezzo fa, certamente, gli operai rimasti sono stremati per le tante cose fatte, per le ristrettezze, per gli stipendi che sono mancati; ma c’è una visione più lucida, che si è allargata alla guerra, alla convergenza con altre lotte di lavoratori, ai temi ambientali legati al cambiamento climatico. Ed è nato dal basso il progetto di re-industrializzazione, grazie al contributo di ricercatori, esperti e tecnici solidali. Un caso unico.
È possibile un paragone con l’esperienza dei social forum?
VB È un paragone difficile. Diciamo che frequentando la Gkn ho trovato una concretezza che allora non c’era. Questa è un’esperienza che nasce da operai senza lavoro, senza reddito, tutta schiacciata sulla realtà, sull’esperienza umana diretta. Tra allora e oggi, molti temi e molte analisi si sovrappongono, ma all’epoca dei social forum si studiava, si discuteva, si imparavano tante cose, però non c’era un contatto diretto con la condizione umana di cui parlavamo.
Perché hai scelto di raccontare il caso Gkn con un romanzo?
VB Perché di parole su questa esperienza se ne sono spese tante, sia nei media mainstream sia in quelli di movimento: è una vicenda complessa e molto raccontata, ma io volevo rappresentare soprattutto la speranza. E volevo tenere in primo piano il livello emotivo, a fianco di quello politico. C’è sempre stato in Gkn questo doppio binario. Nei post sui social, nei comunicati, negli interventi in assemblea, nei comizi, si è sempre insistito anche sul lato emotivo. E ho visto tante e tanti, sia operai sia solidali, vivere con intensità, emotivamente parlando, questa esperienza. Il romanzo, meglio di altre forme di scrittura, consente di cogliere questo aspetto.
Agata nel romanzo vive un’esperienza di forte cambiamento personale, con una grande presa di coscienza. Quanto è rappresentativa?
VB Molto. Tantissime persone dentro e attorno alla Gkn, sono cambiate e sono cresciute. Ci sono operai che prima non parlavano nemmeno al bar e ora intervengono dai palchi. Tanti solidali hanno messo a frutto capacità inutilizzate, in tanti modi: nell’organizzazione, nella contabilità, nella gestione di una giornata di lotta o di un festival letterario. Ma c’è anche un altro tratto caratteristico, che può sembrare paradossale, e va tenuto in conto: la solitudine. La mia generazione ha vissuto in modo diverso da quelle precedenti. Veniamo da famiglie contadine allargate, ma siamo cresciuti in piccoli appartamenti cittadini, senza una comunità intorno, nella solitudine. Siamo infinitamente soli. Perciò è stato ed è difficile riscoprire una dimensione collettiva. Ma è quello che stiamo facendo.
Che operai hai trovato in Gkn? Sono diversi da quelli delle generazioni precedenti?
VB Forse non c’è tanta differenza. Nella generazione dei miei genitori c’era una forte coscienza di classe anche tra chi non era attivista politico e sindacale. Questa cosa l’ho ritrovata in Gkn. Ma io conosco anche tanti operai o figli di operai della mia età, la working class della mia generazione, e francamente non pensavo che ci fossero al giorno d’oggi operai come quelli che ho incontrato in Gkn. C’è una differenza enorme rispetto a tanti miei coetanei, ex compagni di scuola, amici del paese, i primi fidanzati: loro non hanno una visione collettiva delle propria condizione esistenziale e sociale. Sono integrati nel sistema dominante, per cui quello che conta sono ovviamente il lavoro e il reddito, ma concepiti e difesi come una cosa propria, individuale, senza mai allargare prospettive e orizzonti. In Gkn ho trovato tanti operai della mia età, ma anche una grande coscienza di classe collettiva.
Come ti spieghi questo fatto?
VB La risposta me l’hanno data loro, gli operai: sono ex lavoratori dello stabilimento ex Fiat di Firenze, hanno conosciuto i vecchi delegati sindacali che si erano formati nelle lotte dei decenni precedenti. Da questo punto di vista, quel luogo è stato una scuola importantissima. E poi c’è il Collettivo di fabbrica, che è nato ben prima del 2021, ed è un organismo più largo della rappresentanza sindacale formale. Molti degli operai coinvolti avevano un’esperienza di militanza politica e sociale, oltre che sindacale, cosa che ha permesso la costruzione di una prospettiva ampia di cambiamento. Il Collettivo è un luogo di dibattito e di iniziativa, senza distinzioni di sigle sindacali, che ha permesso di tenere sempre uno sguardo allargato, sia all’interno della fabbrica sia fuori. Penso all’attenzione forte al precariato e alle condizioni dei lavoratori delle ditte dei servizi appaltati o al legame stretto nel tempo con il territorio. È in questo ambito che è maturata la risposta ai licenziamenti del 9 luglio 2021. È così che si spiega quell’affermazione rivoluzionaria rivolta dagli operai alla cittadinanza all’inizio della vertenza: “E voi, come state?”.
Una domanda che fu fatta anche ai giornalisti. Ci fu un’assemblea unica nel suo genere, con i giornalisti che si “confessavano” sulla precarietà e lo sfruttamento del proprio lavoro.
VB Fu un’assemblea grandiosa, perché coglieva un bisogno fortissimo. Parteciparono cronisti di tutte le testate, dalla Rai al più piccolo quotidiano o sito di provincia, e di tutte le condizioni; ci furono moltissimi interventi, ma poi non ne nacque nulla. Non siamo riusciti, mi ci metto anch’io, che pure non faccio la giornalista di professione, a impostare un discorso collettivo, a superare la dimensione individuale. È stata un’occasione perduta.
Valentina, qual è un buon motivo per leggere “La fabbrica dei sogni”?
VB Credo che il romanzo consenta di cogliere gli aspetti importanti di questa vicenda, di ripercorrerne le tappe salienti, in un modo lineare, pulito, senza rischiare di perdersi. E con la leggerezza della narrativa.
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