Diritti / Reportage
Ritorno a Oulx, sulla frontiera alpina. Aumentano i transiti, i respingimenti sono sistematici
Sono già diecimila i passaggi monitorati quest’anno allo snodo Nord-occidentale, in forte aumento rispetto al 2022 quando furono in tutto 12mila. La stretta sorveglianza del confine da parte francese e il mancato accesso ai diritti sul territorio italiano, se non per iniziative volontarie, colpiscono duramente i migranti. Il reportage
Per le strade di Briançon, primo Comune francese subito dopo il confine con l’Italia alla frontiera Nord-occidentale, non c’è quasi nessuno. È una notte fonda dei primi d’ottobre quando all’improvviso sbuca un gruppo di ragazzi che si dirige con passo svelto verso la stazione: cercano un luogo dove potersi riposare. Intorno è tutto chiuso e avrebbero bisogno almeno di bere un sorso d’acqua, ma la gioia di essere riusciti ad arrivare in Francia compensa la necessità di dormire e di mangiare.
“Ce l’abbiamo fatta”, dice sorridendo uno di loro. Sono in cinque, tutti provenienti dal Niger e tra loro c’è anche un minorenne. “Abbiamo camminato per otto ore -racconta- ci siamo fermati solo per nasconderci dalla polizia in mezzo agli alberi. Oppure ci siamo sdraiati per terra quando sentivamo un rumore dal cielo”.
A far paura in questi giorni non sono solo i gendarmi appostati con i binocoli ma anche i droni che il governo francese sta usando per bloccare quanti più transitanti possibile. Dotati di visori termici, sono in grado di stanare i ragazzi anche di notte ed è per questo che i “cacciati” tendono a salire sempre più in cima, oltre i duemila metri. In questo modo il loro tragitto, di per sé già complicato, diventa ancora più pericoloso, soprattutto con la neve e il ghiaccio. Il gruppo arrivato a Briançon saluta e si nasconde nel buio per trovare un posto dove riposare qualche ora. C’è da aspettare l’alba, quando con un treno o con un autobus si tenterà di proseguire il viaggio verso una delle principali città francesi.
“C’è mio fratello che mi aspetta”, racconta un sedicenne mentre riempie la bottiglietta alla fontanella del centro di Claviere (TO), l’ultimo Comune italiano prima del confine. È pomeriggio e il sole è decisamente caldo per essere ottobre, ma lui indossa una giacca a vento e una sciarpa pronta a far da cappello se in nottata la temperatura dovesse scendere. Aspetta insieme a un gruppo di giovani che si faccia buio per salire in montagna. “Non ho paura della montagna. Ho paura di essere preso dalla polizia e di essere rimandato indietro -continua-. Ma tanto ci riprovo”. Un secondo ragazzo racconta di essere già stato respinto due volte: “Ma prima o poi ce la faccio. Sono stato picchiato tante volte lungo il viaggio, torturato e minacciato. Il buio e la montagna non potranno mai essere peggio”. Del freddo sì, qualcuno ha paura.
La maggior parte delle persone che si apprestano ad attraversare le Alpi non ha idea di quanto le temperature possano scendere in montagna. In questi giorni di caldo decisamente anomalo, poi, non credono a chi li avverte che potrebbero soffrire il freddo e battere i denti. E così al rifugio “Fraternità Massi” di Oulx i volontari devono convincerli a prendere la felpa e a indossare i calzettoni prima di infilare gli scarponi da montagna.
Questo luogo è diventato negli anni un punto di riferimento fondamentale per i migranti che vogliono lasciare l’Italia e raggiungere la Francia. Ma negli ultimi mesi il flusso di persone che ogni giorno arrivano è cresciuto fino a raggiungere livelli insostenibili. “All’anno scorso ne arrivavano tra le cinquanta e le cento al giorno. Ma i momenti di sovraffollamento erano poco frequenti -spiega una delle volontarie-. Arrivavano soprattutto dalla rotta balcanica: erano siriani, afghani, palestinesi, bengalesi. C’era anche qualche persona nordafricana. Oggi, invece, arrivano quasi esclusivamente migranti provenienti dai Paesi dell’Africa sub-sahariana sbarcati nelle scorse settimane a Lampedusa o in altre località del Sud”.
In questi giorni al rifugio i volontari sono sotto pressione: arrivano fino a 250 persone a notte ma i posti a disposizione sono solo 80. “È chiaro che dover aiutare così tante persone ha messo a dura prova l’organizzazione -spiega don Luigi Chiampo, parroco di Bussoleno (TO) che gestisce la struttura-. Significa farli dormire per terra, faticare per offrire a tutti un piatto di pasta o per vestirli in maniera adeguata ad affrontare la montagna”. Il rifugio è un luogo sicuro, dove le persone in transito sanno di poter trovare le cure di cui hanno bisogno dal momento che è sempre presente il presidio di due associazioni che offrono assistenza medico-sanitaria: Rainbow for Africa e Medici per i diritti umani (Medu). Ma soprattutto sanno che possono cambiare le scarpe, spesso lacere e inadeguate. “La maggior parte di chi arriva qui lo fa con le infradito ai piedi -racconta Sofia, una delle volontarie- indossando magliette e pantaloncini. Non possono andare in montagna così”.
Al mattino gli ospiti del rifugio si mettono in fila al guardaroba, una stanza al pian terreno dell’edificio dove si può trovare tutto il necessario per questa nuova tappa del viaggio: scarpe, pantaloni, maglie, giacconi, guanti, calzettoni, cappellini e zaini per uomini, donne e bambini. Tutto viene catalogato per taglia e tipologia.
“Shoes, chaussures, scarpe. Non vanno bene quelle”, spiegano i volontari. Le persone si lasciano consigliare ma alcune, soprattutto i più giovani, sgranano gli occhi di fronte a felpe colorate e giacche morbide.
E così, imbacuccati e attrezzati, aspettano l’autobus per Claviere. “Ho 18 anni -dice uno di loro- ma sono partito quando ne avevo 16. Sono due anni che cerco di salvarmi la vita e ora sono nelle mani di Dio”. La maggior parte dei migranti che in questi giorni stanno tentando di attraversare le Alpi è sbarcata nelle scorse settimane a Lampedusa e in poco tempo ha raggiunto il confine: “Non vogliamo rimanere in Italia, abbiamo tutti famiglia o amici che ci aspettano in Francia o in Belgio -spiega Hassan a nome dei suoi compagni di viaggio-. Abbiamo una casa e forse anche un lavoro ad aspettarci”.
Tra i migranti al rifugio di Oulx ci sono anche molte donne con bambini piccoli. Per loro la traversata in montagna è ancora più difficile, ma non c’è alternativa. Ismael sta imparando a camminare proprio in questi giorni, aggrappandosi alle gambe delle sedie e appoggiandosi alle mani di tanti sconosciuti che gli sorridono. “Non ha paura di niente”, ammette la madre. Insieme a un piccolo gruppo, anche lei tenterà di raggiungere Briançon.
Intanto è ora di lasciare il rifugio per andare alla stazione e salire sull’autobus. Biglietto alla mano le persone prendono posto e salutano i volontari, sperando davvero di non rivederli più. Se dovessero ripresentarsi a sera tarda o la mattina seguente vorrà dire che la polizia francese li avrà presi e respinti.
A riportare i migranti al rifugio è un mezzo della Croce Rossa che fa la spola, anche più volte al giorno, tra Monginevro e Oulx. Seguiamo l’autobus per ritornare a Claviere: mentre un gruppo s’inerpica su per la montagna, un furgoncino torna giù con a bordo cinque persone bloccate la sera precedente. È un meccanismo perverso a regolare questo passaggio a Nord-Ovest, l’ennesimo che i migranti subiscono durante il loro viaggio. Mentre sulle montagne va in scena la caccia all’uomo e i bambini sono rimpallati come biglie, i governi europei giocano al braccio di ferro, senza pensare a canali legali che possano garantire sicurezza e rispetto dei diritti umani.
La fotografia di Martina Cociglio, operatrice legale della Diaconia Valdese, all’incontro “Lampedusa, 3 ottobre 2013: 10 anni alla deriva” organizzato a Roma il 3 ottobre 2023 da Altreconomia e RiVolti ai Balcani, su iniziativa del sen. Tino Magni
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