Diritti / Attualità
Il vuoto del “Processo di Roma” su sviluppo e migrazione promosso dal governo italiano
Le conclusioni della Conferenza voluta da Meloni a Roma il 23 luglio vanno esaminate con cura. Uno “zibaldone di intenti” che difficilmente andrà oltre la propaganda, osserva Gianfranco Schiavone. Senza sviluppi concreti che non siano una nuova “mossa” da mettere in scena a Tunisi o altrove. Con gravi effetti sui diritti umani
Le conclusioni della Conferenza internazionale su sviluppo e migrazione promossa dal governo italiano e tenutasi a Roma il 23 luglio 2023 vanno esaminate con attenzione.
La prima cosa che colpisce in tale testo è il tono inaspettatamente moderato del linguaggio, lontano dalla consueta aggressività usata dalle forze politiche che sostengono l’esecutivo guidato da Giorgia Meloni. Nel testo della dichiarazione finale, sottoscritto dagli Stati partecipanti alla conferenza (in assoluta maggioranza regimi dichiaratamente autoritari o nei quali si verificano serissime violazioni dei diritti umani fondamentali) si legge che gli Stati sottoscrittori riconoscono “il contributo di una migrazione internazionale regolare e ben gestita allo sviluppo delle società a tutti i livelli” e che è necessario garantire “sicurezza e dignità dei migranti e pieno rispetto del diritto internazionale, compresi i diritti umani, il diritto umanitario e quello dei rifugiati”.
La Conferenza si proponeva di essere un punto di avvio di un “Processo di Roma” inteso quale “piattaforma strategica, globale, inclusiva e pluriennale per l’azione collettiva” da definirsi tramite un “piano d’azione” da attuare prossimamente in “riunioni di follow-up”. Nel testo delle conclusioni viene indicato che “la Tunisia è pronta a garantire la continuazione di questo processo ospitando un prossimo evento di alto livello”.
D’altronde è proprio la Tunisia il Paese che, insieme all’Italia, promuove la stessa Conferenza a partire dal primo incontro. Già l’attribuzione di un ruolo preminente proprio a un Paese sull’orlo del collasso sociale ed economico e la cui fragile ma promettente democrazia è stata devastata da ultimo da un autocrate che, nella conferenza di Roma, è sempre comparso in posizione centrale accanto al governo italiano, appare di per sé sufficiente a gettare un’ombra piuttosto sinistra sulla Conferenza. Si dirà che gli interlocutori politici sono dati e che in politica internazionale si lavora con chi c’è e non con ci si vorrebbe avere. Ciò è indubbiamente vero, ma la scelta di attribuire in modo così sguaiato un ruolo di attore primario al despota di un Paese che versa nelle condizioni della Tunisia di oggi rende decisamente poco credibile e autorevole a livello internazionale l’avvio dell’intero processo.
Lo scopo annunciato della Conferenza e del relativo Processo che con la conferenza prenderebbe vita è stato quello di “affrontare i fattori politici, socioeconomici e climatici che determinano le migrazioni e gli spostamenti forzati a livello internazionale, a promuovere percorsi legali e sicuri e a contrastare più efficacemente la tratta di esseri umani e il traffico di migranti” attraverso la realizzazione di “partenariati su misura, completi, equilibrati e reciprocamente vantaggiosi tra i Paesi di origine, transito e di destinazione (dei migranti)”.
Dal testo sembra emergere la consapevolezza che è necessario rafforzare misure per sostenere “lo sviluppo economico, lotta alla povertà e protezione sociale” nonché l’accesso a “servizi essenziali, come l’accesso all’energia, alla salute, all’acqua e ai servizi igienici, agli alloggi e alla infrastrutture” e che ciò deve avvenire all’interno di programmi per la “protezione dell’ambiente e la creazione di un mix energetico diversificato, con particolare attenzione allo sviluppo delle fonti di energia rinnovabili”.
Salvo un riferimento al fatto che i migranti e le diaspore possono essere “attori dello sviluppo”, non sembra tuttavia emergere alcuna consapevolezza sul fatto che il rafforzamento della cooperazione internazionale (che una volta si sarebbe denominata “allo sviluppo”) più volte evocata nel testo, non produce affatto l’effetto automatico sperato di diminuire le migrazioni, bensì aumenta i flussi migratori modificandone modalità e caratteristiche; si tratta di dinamiche che possono avere ricadute positive sia sui Paesi di destinazione sia su quelli di origine, ma solo se gli interventi di cooperazione e di gestione delle migrazioni si orientano verso l’adozione di strategie complesse a cui il documento non fa però alcun cenno. In altre parole il documento, nella parte relativa alla cooperazione economica pare nulla di più che la trasposizione in un linguaggio più aulico del noto classico slogan da bar “aiutiamoli a casa loro”.
Venendo al cuore del documento che riguarda tutto ciò che investe la gestione dei flussi migratori, l’obiettivo di fondo che si intende perseguire appare chiaro ed è quello di “rafforzare le misure per prevenire e frenare i flussi migratori irregolari anche attraverso accordi bilaterali o multilaterali per combattere efficacemente il traffico di migranti via terra e via mare”. Per ottenere tali risultati ci si prefigge di attuare “azioni comuni, cooperazione e partenariati operativi tra le forze dell’ordine e le autorità giudiziarie per smantellare le reti criminali impegnate nel traffico di migranti e migliorare le capacità nazionali di gestione delle frontiere”.
È opportuno soffermarsi su queste dichiarazioni: ci si prefigge di attuare dunque un coinvolgimento diretto, tramite uomini e mezzi italiani e di altri Stati dell’Unione europea, nella gestione delle frontiere di Paesi terzi. Viene dunque in evidente rilievo la cruciale responsabilità italiana ed europea, affatto smentita, bensì rivendicata come obiettivo, di dare attuazione ad azioni che hanno un impatto evidente sulla vita e sul rispetto dei diritti fondamentali di molti cittadini di Paesi terzi che intraprendono un percorso migratorio, perché in cerca di protezione o per ferma volontà di migliorare le loro condizioni di vita.
Nel caso di persone in cerca di protezione non ha alcun senso dal punto di vista del diritto internazionale ed europeo, sostenere che il legittimo obiettivo sia quello di voler frenare i flussi giacché il diritto d’asilo richiede risposte che siano comunque e in ogni caso orientate a consentire l’accesso al territorio di chi è in cerca di protezione, nel rispetto dell’inderogabile divieto di non respingimento sancito dall’articolo 33 della Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati.
La politica internazionale può legittimamente porsi il problema di come redistribuire le responsabilità di fornire protezione tra i diversi Stati coinvolti ma non può mai porsi come obiettivo quello di contrastare in sé il flusso dei rifugiati. Eppure è proprio su questo incandescente terreno che il linguaggio della Dichiarazione diviene contorto, contraddittorio e talvolta persino privo di base logico-linguistica. Si legga in tal senso un passaggio come il seguente: “I partenariati si impegnano […] nella mobilitazione dei finanziamenti più efficaci e nell’attuazione di iniziative di cooperazione per fornire sostegno ai rifugiati e ai Paesi che li ospitano, prevenire e frenare la migrazione irregolare, in particolare affrontando le reti di contrabbando, affrontando le cause degli spostamenti forzati internazionali e promuovendo una mobilità ordinata e legale, anche attraverso l’ammissione umanitaria”.
Una frase zibaldone dove si mescolano concetti e piani diversi senza che si comprenda alcun contenuto diverso dal meta-messaggio che rimane sullo sfondo ovvero quello di prevenire e frenare gli arrivi di migranti verso l’Europa, in generale, qualunque sia la loro condizione giuridica.
La tecnica del minestrone raggiunge in altri passaggi esiti estremi e bizzarri come nel seguente: “Incoraggiare partenariati internazionali completi sulla migrazione e lo sfollamento forzato internazionale, anche nel campo della riammissione e garantire le migliori condizioni per il reinserimento dei migranti irregolari, coinvolgendo le organizzazioni internazionali competenti, insieme agli sforzi per collegare il reinserimento allo sviluppo locale e affrontare i fattori che costringono i migranti a intraprendere movimenti irregolari in primo luogo”. Come si può vedere, la frase, dall’impianto linguistico incerto, non segue una linea di ragionamento o se c’è essa non va ricercata in ciò che c’è scritto ma in ciò che non c’è scritto e a cui si allude.
Più esplicito il punto in cui si esplicita l’intenzione di “migliorare la protezione dei migranti e delle persone costrette a fuggire, per mitigare l’esposizione ai rischi dei viaggi successivi, contrastando così le reti di traffico e contrabbando”. Voler mitigare il rischio dei viaggi cosiddetti successivi, ovvero quelli intrapresi dalle persone che si trovano in Paesi terzi verso l’Europa non è certo di per sé un obiettivo illegale, ma esso assume ben altra connotazione di responsabilità, anche giuridica, se l’obiettivo è non quello di aumentare la protezione, bensì è solo quello di confinare a tutti i costi i migranti in Paesi disponibili innanzitutto a respingerli alle proprie frontiere, e, in caso di fallimento di tale operazione, almeno di trattenerli presso di sé come carico sgradito, dietro lauto compenso.
In più occasioni ho richiamato l’attenzione sul fatto che una chiara, precisa e continuativa collaborazione dell’Italia o di altri Stati dell’Unione europea, tramite la fornitura di mezzi materiali, formazione logistica e preparazione del personale di polizia di uno Stato coinvolto nella violazione del richiamato divieto di non respingimento della Convenzione sui rifugiati di Ginevra, nonché nella violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea per i diritti dell’uomo e le libertà fondamentali e dagli articoli 4 e 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, implica gravi responsabilità giuridiche perché il principio di non respingimento ha una portata extraterritoriale e dunque l’azione commessa al di fuori del territorio europeo rimane soggetta alla giurisdizione della Corte europea dei diritti umani ai sensi dell’articolo 1 della stessa Convenzione.
È evidente la difficoltà di provare il nesso causale che sussiste tra il supporto fornito dallo Stato dell’Ue e la violazione commessa materialmente da uno Stato terzo in contesti chiaramente opachi per assenza di procedure di controllo, dissimulazione delle reali finalità dei supporti forniti, ed infine rifiuto di accesso alle informazioni, rende irta la strada dell’azione legale, come lo è sempre nel campo della tutela dei diritti umani fondamentali di coloro che vengono trasformati in non-persone. La difficoltà di superare tali ostacoli che minano l’effettività del diritto non elimina né sminuisce però la grave responsabilità giuridica rispetto alle azioni commesse.
Come ha ben evidenziato il giurista Fulvio Vassallo nell’esaminare gli esiti della Conferenza di Roma, “I respingimenti collettivi, come quelli realizzati in mare per effetto della collaborazione delle autorità europee ed italiane con le guardie costiere libiche e tunisine, e i respingimenti nel deserto, come quelli praticati di recente da Kaïs Saïed in Tunisia, non sono dunque conformi al diritto internazionale e non possono essere considerati strumenti utilizzabili per contrastare le migrazioni irregolari. Eppure proprio su quei respingimenti collettivi su delega, attuati in acque internazionali, o in Tunisia ed in Libia verso Paesi terzi dell’area subsahariana, si basano gli accordi operativi destinati a rimanere segreti, che si vorrebbero concludere dopo le Conclusioni della Conferenza internazionale di Roma”.
Veniamo dunque ad esaminare l’ultimo ma certo non meno rilevante aspetto delle conclusioni della Conferenza che riguarda la tanto enfatizzata migrazione legale. Su come concretamente giungere a realizzare nuovi ed efficaci canali di ingresso regolare per motivi diversi dalla protezione (dunque in netta prevalenza, studio e lavoro) il documento si limita laconicamente a sostenere la necessità di “promuovere una mobilità ordinata e legale verso l’Europa” nonché di “promuovere politiche volte alla possibile introduzione di adeguati regimi di visto verso il Paesi di origine”. L’unico passaggio del testo che risulta avere minor vaghezza è il riferimento alla “creazione di posti di lavoro e sviluppo delle competenze attraverso l’istruzione di qualità, la formazione tecnica e professionale, il sostegno all’imprenditorialità, anche per i migranti, i rifugiati e gli sfollati, soprattutto nei Paesi di origine”.
Per ragioni di eleganza non chiederemo all’estensore del testo quale significato possa mai avere il sostegno rivolto ai rifugiati per una loro imprenditorialità nei Paesi di origine. Come sottolinea Vassallo, “la mobilità migratoria deve caratterizzare l’intero bacino del Mediterraneo ‘allargato’ di cui parla adesso Giorgia Meloni, ma senza sotterfugi che riducono le possibilità di ingresso legale proprio per la maggior parte delle persone ‘candidate’ a fare ingresso irregolare in Italia, che si abbandonano invece alle mafie internazionali, spesso colluse con le autorità di polizia di quei Paesi con i quali adesso si stringono accordi bilaterali. Nessun baratto è possibile tra diritti umani e contrasto dell’immigrazione irregolare”.
In conclusione ritengo che sia quanto mai difficile che lo zibaldone di intenti di ogni genere che ha caratterizzato la Conferenza di Roma vada oltre una semplice dimensione propagandistica priva di qualunque successivo concreto sviluppo che non sia qualche nuova teatralizzazione da mettere in scena a Tunisi o altrove. Soprattutto è auspicabile, per quanto triste, che tutto si fermi a questo vuoto politico perché, come si è visto dall’analisi del testo, l’attuazione dei reali obiettivi della Conferenza e del suo futuro “Processo” si tradurrebbe esclusivamente in una collaborazione de facto da parte italiana e di altri Paesi dell’Unione europea nella commissione di seri crimini verso i rifugiati e migranti.
Gianfranco Schiavone è studioso di migrazioni. Già componente del direttivo dell’Asgi, è presidente del Consorzio italiano di solidarietà-Ufficio rifugiati onlus di Trieste
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