Interni / Intervista
“Abitare il vortice”, per ridare un senso alle città e trovar le ragioni di viverci ancora
Intervista a Bertram Niessen, direttore scientifico di cheFare, che ha pubblicato un libro fondamentale per orientarsi nella complessità del tema. Specie in Italia. Tra gentrificazione e disneyficazione, narrazioni iconiche, costo dell’abitare, rendite finanziarie e rigenerazione urbana. Non è un volume “contro le città”, è una bussola
Quando la vita urbana si è fermata, nel 2020, allo scoppio della pandemia, tante persone si sono chieste quali fossero le ragioni per vivere in città. Tre anni dopo la domanda resta aperta e Bertram Niessen, direttore scientifico di cheFare, ha pubblicato un libro fondamentale per chiunque desideri orientarsi nella complessità del tema e provare a rispondere a questa domanda.
“Il motivo per cui gli esseri umani si mettono insieme nelle città è prima di tutto simbolico; le città sono la modalità con la quale noi ci uniamo e incontriamo nostri simili, costruendo gruppi che ci rendono un super-organismo, antropologicamente tendiamo a superare i limiti individuali nell’interazione con gli altri, questo accadeva nelle tribù e oggi in città con dieci milioni di abitanti”, sottolinea. Non è un libro contro le città, “Abitare il vortice”, ma aiuta il lettore a comprendere le dinamiche che -ben prima dell’emergenza Covid-19- avevano portato alcune grandi città a perdere il senso, attraversando insieme “Le città degli specchi”, “Le città delle crepe” e “Le città dei vortici”.
Tra i temi da comprendere c’è la gentrificazione, termine -come scrivi nel libro- molto utilizzato ma poco compreso.
BN In Italia se ne parla in modo molto naif, anche nel dibattito pubblico dove la riflessione intorno alla gentrificazione è iniziata molto più tardi rispetto a Paesi come la Germania, la Gran Bretagna o gli Stati Uniti d’America. Questo termine viene usato troppo genericamente per indicare processi diversi, da quelli che portano al trasferimento della popolazione povera la cui presenza ha permeato un determinato quartiere di capitale simbolico e capitale culturale diffuso a favore di una popolazione più ricca, a fenomeni di costruzione “in vitro” di prodotti urbani appetibili per un determinato tipo di pubblico, che definirei più disneyficazione. Non si dà valore al fatto che quando questi fenomeni riguardano gruppi sociali con meno potere -più poveri, più marginalizzati- che vengono scacciati da quartieri dove hanno contributo a costruire un capitale culturale relazionale, questo crea anche un danno alla collettività, nel momento in cui il patrimonio simbolico viene espropriato a favore di altri. In Italia siamo purtroppo abituati a pensare al patrimonio culturale solo in termini di beni culturali, dai musei al patrimonio archeologico, senza renderci conto che determinati quartieri sono “densi” grazie a un tipo particolare di patrimonio culturale: alle persone che lì abitano, un insieme di relazioni, modi ed esperienze che all’interno dei processi di gentrificazione si perdono.
A trasformare le città concorre anche la costruzione di narrazioni iconiche e la diffusione delle più disparate classifiche, dal Global City Competitiveness Index al The World’s Best Cities. Che peso dare a questi ranking?
BN La datificazione è un fenomeno consolidato: ormai leggiamo il mondo in cui viviamo attraverso una serie di sistemi di metriche e tendiamo a misurare tutto. Si è sviluppata così a partire dagli anni Ottanta una logica della competizione tra città che lega lo sviluppo economico urbano a un sistema di misurazione delle performance, pensando che attraverso questi sistemi di metriche le città possano costruire un sistema economico competitivo. Che il city user ricco, il turista e le aziende vengano attratti da una città perché sta in cima a una graduatoria e sa usare bene il sistema di city branding. È solo un sistema che si autoalimenta, che obbliga le città che restano fuori da queste classifiche ad investire a favore dei soggetti che le redigono. A mio avviso questo paradigma si regge su un’idea da rompere: non è vero che esiste una “torta”, divisa in fette più grandi o più piccole, e che a un certo punto non ci sarà più spazio per nessuno; credo che le risorse di tipo immateriale siano potenzialmente accrescibili, ma in un’ottica di collaborazione e non di competizione tra città.
Oggi uno dei maggiori problemi urbani è legato al costo dell’abitare. Scrivi che per politiche e innovazioni radicali servono elaborazione culturale e mobilitazione politica. A che punto siamo in Italia?
BN Siamo in un momento molto promettente. Per quanto riguarda la mobilitazione politica, si sta allargando un nuovo fronte di dibattito e azione, che riprende, integra e supera i movimenti per la casa degli anni Novanta e Duemila, che ormai facevano fatica a ingaggiare nuovi interlocutori, perché difendevano spazi limitati di occupazione. Questo universo si sta integrando con un nuovo mondo, quello della classe media impoverita che nelle zone periferiche fa fatica a vivere, sia in termini di affitti che di mutui. Lo si vede a Milano intorno a via Padova, o nell’azione del gruppo di Alta tensione abitativa, contro gli affitti brevi. Assistiamo a una trasformazione delle pratiche e delle tipologie dei movimenti sociali che si stanno occupando di “casa” e che aumenteranno in modo esponenziale. Non credo che il dibattito pubblico sia pronto per tutto questo e anche l’attenzione al tema “caro-affitti a Milano” si acquieterà alla svelta. È certo, però, che per la prima volta figure specializzate in ambito editoriale stanno iniziando a mettere a fuoco questi temi, da Sarah Gainsforth a Laura Carrer su Milano Today. Questo apre gli spazi a una nuova elaborazione teorica.
Questo dibattito esiste ma fatica a convincere la politica ad affrontare il problema dei patrimoni e della rendita.
BN Molte città, senz’altro le più grandi in Occidente, sono dominate dalla rendita finanziaria, dei grandi soggetti come i fondi ma anche dalle famiglie e dalle persone. Anche se ci siamo raccontati per tantissimo tempo che era possibile costruire una ricchezza consistente tramite il solo lavoro, sappiamo che questo è successo solo in un periodo storico, quello del boom economico. Anche se questo non è più vero da decenni, la nostra idea di crescita della città è ancora ancorata a questo concetto e finiamo per vivere agganciati al lavoro, alla ricerca di un benessere e di una promozione sociale che non arriva, perché la realtà è che stiamo “inchiavardati” dai meccanismi della rendita alla classe delle famiglie di provenienza.
I temi della città, della casa e degli spazi appariva centrale durante il periodo più duro della pandemia. Che ne è stato?
BN Tante cose che sono collegate alla pandemia sono state congelate e spazzate sotto il tappeto. L’ecatombe sanitaria non ha avuto conseguenze dal punto di vista legale, né ha visto una sanzione politica, per cui non c’è stata nemmeno una elaborazione culturale. Siamo di fronte a un grande rimosso, un fenomeno che riguarda tutti i gruppi d’età e che si riscontra anche nei territori più colpiti. L’emergenza è un trauma da rimuovere, e questo vale per le case, per gli spazi pubblici, anche, per tutti i discorsi sulla mobilità. La storia insegna che dopo i grandi traumi c’è stato bisogno di spazi di elaborazione simbolica. Oggi mi chiedo come arriveremo a produrre un nuovo patrimonio di simboli se tutto è talmente silenziato e sepolto. L’ho vissuto anch’io sul piano personale scrivendo questo libro. Avevo dei blocchi, scrivevo tre righe in un pomeriggio, cosa mai successa in tutta la mia vita.
Altro aspetto rimasto congelato è quello legato alla mobilità e ai modelli di città.
BN Dobbiamo tornare a dare un significato politico a scelte giustificate usando solo una chiave tecnica, una scusa per sottrarre le decisioni al dibattito pubblico. Una delle cose più significative accadute negli ultimi anni è la teorizzazione della città di prossimità, partita da Parigi, prima della pandemia. Politicizzare il tema significa sottrarre la “città dei 15 minuti” dall’incubo del paesino da film horror, in cui non esci mai dal quartiere, tutti ti conoscono e sei obbligato in città a vivere una città come se fosse un micro paese, perché non hai la possibilità di muoverti, e costruire invece modelli di città accessibili per tutti. Questo vuol dire che chi non può non deve essere obbligato a cercare funzioni sociali e culturali lontano dal quartiere in cui vive. Questo potrebbe rappresentare un trampolino per una dimensione generativa delle città, che si costruisce anche sulle distanze.
La dimensione generativa è centrale nella riflessione intorno al tema della cultura, a cui è dedicata la terza parte del libro. Perché la cultura dev’essere una pratica collaborativa?
BN Negli ultimi 20 anni s’è sviluppata una narrazione prevalente che lega la cultura al patrimonio come qualcosa che radica nel passato senza costruire prospettive. L’alternativa è l’intrattenimento, prodotti da consumare e buttare, oppure investimenti che sono solo una dimostrazione di status e di ceto, conversione di capitale. Molte di queste forme hanno elementi potenzialmente positivi: la cultura come leisure ci ha fatto vedere che è possibile abbattere le barriere tra alto e basso, tema chiave in una società che ha perso la tensione alla cultura come strumento di emancipazione dell’individuo, presente ad esempio nelle società operaie di mutuo soccorso. Ciò che ancora non è inteso da tutti è che oggi abbiamo bisogno di vivere la ricchezza culturale non solo comprando un biglietto ma anche vivendola e producendola nello spazio intorno a noi. Una cultura di prossimità fondamentale e fondativa delle relazioni da costruire con la città, per non perderne il senso.
La produzione culturale, in questo senso, deve tornare ad essere anche conflitto.
BN Abbiamo perso tutti l’abitudine al conflitto. La maggior parte dei gruppi di pensiero hanno costruito l’equivalenza falsa “conflitto uguale violenza”. Il conflitto è una forma di confronto tra individui attraverso toni non necessariamente pacati, anche nelle pratiche estetiche. Tutto ciò che devia o spezza i vincoli del mondo circostante sembra sempre troppo forte. Ma non dobbiamo smorzare i toni.
Chiudiamo un cerchio: la rigenerazione urbana è una risposta alla gentrificazione?
BN Anche rigenerazione urbana è un’etichetta abusata, sotto cui vengono ricondotte pratiche, filiere, tipologie di attori e intenti politici completamente diversi. Esiste una rigenerazione urbana dall’alto, con grandi interventi di trasformazione di intere aree della città, che coinvolgono partnership pubblico-privato e grandi fondi immobiliari. Dal basso, sono invece operazioni fatte da collettivi, attivisti in senso stretto, che lavorano in ottica di vicinato. Tra questi due estremi ci sono tante gradazioni, in alcuni casi il controllo della parte pubblica è forte, in altri abdica completamente a favore del privato, in alcuni la dimensione politica e culturale è molto forte, in altri è solo di facciata. Con cheFare lavoriamo con le organizzazioni “dal basso”, o per facilitare politiche pubbliche che le abilitino. In generale, mancano un linguaggio e un pensiero politico che ci aiutino a capire le differenze e questo impedisce di prendere posizione. Le trasformazioni sono inevitabili, le città si trasformano e cambiano faccia, la parte che non è scontata è che queste possano essere impugnate in modo diverso, politicamente, dando vita a iniziative sostenibili, radicali da un punto di vista sociale e ecologico.
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