Ambiente / Approfondimento
Perché la costruzione di nuovi invasi non è la soluzione alla crisi idrica
La grave siccità in corso va approcciata affrontando le cause e non i sintomi, spiega il Centro italiano per la riqualificazione fluviale. Realizzare ulteriori bacini artificiali senza toccare lo sperpero idrico del modello agricolo intensivo è una strategia senza futuro, contraria alle strategie europee di tutela e ripristino della biodiversità
“La costruzione di nuovi invasi non può essere la soluzione alla crisi idrica. Il luogo migliore dove stoccare l’acqua è la falda”, denuncia il Centro italiano per la riqualificazione fluviale (Cirf), tra le poche voci fuori dal coro che si sono levate dinanzi alla risposta unicamente “infrastrutturale” messa in campo dal governo e dagli enti locali per far fronte alla siccità. Una strategia “inaccettabile”, “insostenibile” e “senza futuro” perché “causa di ulteriore aggravio delle prossime crisi e dai benefici non duraturi”.
L’analisi del Cirf parte dal fatto che la grave crisi idrica in corso è “senza dubbio da inquadrare nella epocale crisi climatica ed ecologica in atto e come tale va approcciata in modo strutturale, affrontando le cause e non correndo dietro ai sintomi”.
La radice del problema, infatti, sta nell’aver “perseguito per decenni uno sviluppo economico che prescinde dai vincoli ecosistemici”. Cosa che nell’Unione europea ha avuto conseguenze tragiche. Oltre l’80% degli habitat è in cattivo stato di conservazione, dal 1970 le aree umide si sono contratte del 50%, negli ultimi dieci anni il 71% dei pesci e il 60% degli anfibi ha mostrato un declino delle popolazioni, un terzo tra api e farfalle sono in declino e un decimo sono sull’orlo dell’estinzione.
“Questi dati non possono essere guardati con sufficienza -spiegano Andrea Goltara e Giuliano Trentini, direttore e vicepresidente del Cirf- ed è imbarazzante che la risposta alla crisi idrica si basi sull’ulteriore depredazione delle risorse naturali e su ogni ulteriore aggressione alla biodiversità”. Le proposte in discussione in Italia -ulteriori deroghe al deflusso ecologico e costruzione di nuovi invasi artificiali lungo i corsi d’acqua- vanno nella direzione opposta rispetto a quanto previsto a livello europeo. Goltara cita le strategie per la “Biodiversità 2030”, la “From farm to fork” nell’ambito del New Green Deal, riprese dalla recente proposta normativa (il “Pacchetto natura”) presentata il 22 giugno dalla Commissione europea.
“Per un approccio razionale al problema -continua Trentini- è necessario mettere in discussione come viene utilizzata questa risorsa limitata che è l’acqua”. E il Cirf dà numeri utili. “L’agricoltura è il maggiore utilizzatore mondiale: secondo stime dell’Associazione nazionale bonifiche irrigazioni miglioramenti fondiari in Italia (Anbi) ad essa sono imputabili 14,5 miliardi di metri cubi di acqua l’anno, pari al 54% dei consumi totali. In quest’ambito, a nostro avviso, è una distorsione che si continui a parlare dei miliardi di euro di danni causati all’agricoltura dalla siccità, quando il fulcro della questione dovrebbe essere la produzione di cibo, che prima di tutto deve essere sostenibile”.
Intorno alla “sostenibilità” ruota tutto. “È un prerequisito essenziale affinché i livelli produttivi permangano nel tempo, a fronte non solo delle crisi idriche, ma delle numerose altre crisi sistemiche che stanno rendendo sempre più difficile e costoso l’accesso ai fattori su cui si è basata la produttività agricola dal secondo dopoguerra ad oggi -aggiunge il Cirf-. È quindi prioritario ripensare a quali siano le produzioni agricole meritevoli di essere incentivate e quali invece da disincentivare, in un’ottica di sicurezza alimentare, privilegiando ad esempio le colture meno idroesigenti all’interno del nuovissimo Piano strategico nazionale della Politica agricola comune (Psp) che, lo ricordiamo, è stato bocciato dalla Commissione europea in particolare proprio per lo scarso coraggio in tema di sostenibilità ambientale”.
È infatti l’agricoltura a essere la “maggiore causa singola di perdita di biodiversità”. “Nell’Unione europea -continuano Goltara e Trentini- il 70% dei suoli sono degradati. Secondo l’Ispra il 28% del territorio italiano presenta segni di desertificazione, che non è banalmente un problema di mancanza d’acqua; infatti, secondo dati del 2008, in Italia ‘l’80% dei suoli ha un tenore di carbonio organico inferiore al 2%, di cui una grossa percentuale ha valori di CO minore dell’1%'”. Tradotto: i suoli sono resi disfunzionali, proni alla desertificazione, meno capaci di trattenere acqua e nutrienti, dalla minore capacità produttiva. Dunque per il Cirf va “generalizzata l’adozione di misure mirate all’incremento della funzionalità ecologica dei territori agrari e della loro capacità di trattenere e far infiltrare le acque meteoriche e prevenire il degrado dei suoli”.
Poi c’è la questione delle perdite idriche, clamorosamente ignorata dal Piano nazionale di ripresa e resilienza. “Nel 2018 le perdite nelle reti potabili erano pari al 42% in aumento di dieci punti rispetto al decennio precedente, a causa della crescente obsolescenza. Data la situazione non possiamo quindi non evidenziare come il Pnrr preveda di investire entro il 2026 solo 900 milioni di euro, quando l’Ocse nel 2013 stimava che dovremmo spendere 2,2 miliardi euro ogni anno per i prossimi 30 anni per far fronte alle necessità del Paese e per metterci in pari con il livello di investimenti per il mantenimento delle reti del resto d’Europa”.
Se non si affronta il nodo della “riduzione dei fabbisogni” ha poco senso immaginare soluzioni durevoli. Eppure l’unica risposta discussa in queste settimane è stata la costruzione di nuovi invasi artificiali. “Come Cirf siamo totalmente contrari a nuove dighe lungo i corsi d’acqua -continuano Goltara e Trentini-, mentre siamo possibilisti su piccoli invasi collinari volti alla raccolta dei deflussi superficiali, per quanto pure questi non siano esenti da criticità”. Perché nuove dighe significano un “fortissimo impatto sui sistemi idrografici”. Attualmente gli sbarramenti sono infatti il “fattore di pressione più significativo in almeno il 30% dei corpi idrici europei” nonché “causa del mancato raggiungimento del buono stato ecologico in almeno il 20% degli stessi”.
Le dighe -e gli scavi di alveo- comportano un “cronico deficit di sedimenti su estese porzioni del reticolo idrografico italiano”, incidono gli alvei, determinano “erosione costiera” e hanno inflitto danni a ponti e opere di difesa, “con un ingente esborso di risorse per ricostruire o stabilizzare tali infrastrutture e per realizzare opere di difesa dei litorali”.
È un circolo vizioso per il Cirf. “L’incisione degli alvei e l’erosione delle coste sono fattori primari di depauperamento delle falde freatiche e di intrusione del cuneo salino, ovvero proprio quei fenomeni che imputiamo (esclusivamente) alla siccità e che pretendiamo di combattere con nuove dighe”.
Non solo. “Ci sono altri problemi significativi negli invasi che non vengono mai messi sul tavolo della discussione”, chiarisce Goltara. “Gli invasi perdono molta acqua per evapotraspirazione: non meno di 10mila metri cubi all’anno per ogni ettaro di superficie dello specchio d’acqua, e questa quantità è sicuramente maggiore nel Mezzogiorno e per gli invasi di minori dimensioni (ad esempio quelli collinari) e non farà che aumentare al crescere delle temperature medie”. E soprattutto negli invasi più piccoli “l’acqua può raggiungere temperature elevate, con formazioni di condizioni anossiche, fioriture algali e sviluppo di cianotossine (uno dei problemi emergenti di maggior rilievo a livello mondiale) tutti fattori che compromettono il successivo utilizzo di queste acque”.
Ecco perché il “luogo migliore dove stoccare l’acqua è la falda”. Oltre a vantaggi lato stoccaggio, i sistemi di ricarica controllata della falda costano in media molto meno degli invasi. “Si tratta di 1,5 euro al metro cubo di capacità di infiltrazione annua, mentre per gli invasi i costi arrivano a 5-6 euro al metro cubo di volume invasabile. I sistemi di ricarica controllata consumano molto meno territorio, per essi è più facile trovare siti idonei”, aggiunge Trentini.
Che cosa fare, quindi, nell’immediato? Controllare l’andamento delle precipitazioni e delle temperature è impossibile, riconosce il Cirf, ma si può e si dovrebbe “far sì che le sempre minori e più concentrate precipitazioni permangano più a lungo sul territorio invece di scorrere velocemente a valle fino al mare”. È la “grande opera” urgente della cura e dell’adattamento che passa per la “riqualificazione morfologica ed ecologica dei corsi d’acqua, decanalizzandoli e recuperando le forti incisioni subite nei decenni scorsi, riconnettendo le pianure alluvionali, ripristinando fitte formazioni boscate riparie”. E ancora per la “ricostituzione della rete di siepi interpoderali e del reticolo idraulico minuto, l’adozione generalizzata di pratiche colturali che implementino il contenuto di sostanza organica nei suoli e la loro capacità di assorbire le piogge e trattenere umidità e nutrienti (un incremento dell’1% nel contenuto di sostanza organica può garantire fino a 300 metri cubi per ettaro di accumulo idrico nel suolo, disponibile per la vegetazione), la de-impermeabilizzazione delle aree urbane”.
Perché solo un “territorio e un reticolo idrografico maggiormente naturali” possono far fronte a lunghe siccità e precipitazioni intense. Non un (ennesimo) “piano invasi”.
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