Diritti / Opinioni
Silenzi e omissioni fanno male (anche) alla polizia
Le morti di Giorgiana Masi e Carlo Giuliani non hanno formalmente un colpevole e le istituzioni non hanno mai fornito spiegazioni. La rubrica di Lorenzo Guadagnucci
Quarantacinque anni fa -era il 12 maggio 1977- moriva nel centro di Roma, colpita alle spalle da un colpo di pistola, Giorgiana Masi, studente liceale di appena 19 anni. Stava partecipando a una manifestazione del Partito radicale, organizzata per celebrare la vittoria del referendum sul divorzio, di pochi anni prima. Era una manifestazione non autorizzata: il ministro dell’Interno, Francesco Cossiga, l’aveva proibita per ragioni di sicurezza, ma i radicali non avevano desistito, in polemica con le misure repressive tipiche di quegli anni.
Giorgiana fu uccisa durante disordini fra manifestanti e forze dell’ordine. È opinione comune che i colpi di pistola (ci furono anche dei feriti) siano stati sparati da agenti di polizia in borghese, ma non ci sono certezze. L’inchiesta della magistratura fu chiusa rapidamente senza esito, nella dichiarata mancanza di indizi sui possibili responsabili. Non esiste quindi una verità ufficiale sui fatti; nessuno, nelle istituzioni, si è sentito in obbligo di fare approfondimenti e fornire spiegazioni. Una proposta di inchiesta parlamentare giace da tempo in qualche cassetto di Montecitorio e Palazzo Madama, ignorata da tutti.
Era troppo scomodo -allora come oggi- indagare su un fatto così grave e compromettente. E sappiamo che le forze dell’ordine -allora come oggi- non hanno alcuna attitudine alla trasparenza, tanto che pare scontato e normale il loro disinteresse a chiarire l’episodio. Meglio lasciare il dubbio, meglio sopportare l’onta del sospetto che assumersi le proprie responsabilità davanti alla cittadinanza.
Ventiquattro anni dopo l’omicidio di Giorgiana, un altro manifestante -Carlo Giuliani, di 23 anni- fu ucciso per strada, durante il G8 di Genova, il 20 luglio 2001 in piazza Alimonda. Stavolta sappiamo che Carlo fu ucciso da un colpo di pistola sparato da un carabiniere, il quale avrebbe agito “per legittima difesa” e con “uso legittimo delle armi”, secondo quanto stabilito dal giudice per le indagini preliminari che chiuse così il caso, senza rinvio a giudizio del giovane ausiliario indicato come responsabile dell’omicidio.
Sono dieci i funzionari e i dirigenti di polizia condannati nel processo Diaz che hanno fatto ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo indicando presunte irregolarità nel processo di appello. Il ricorso è stato respinto lo scorso gennaio; la notizia è divenuta pubblica a maggio.
La contro inchiesta di avvocati, attivisti e familiari di Carlo e anche alcune evidenze emerse in processi paralleli hanno messo in dubbio la ricostruzione ufficiale dell’episodio, ma non c’è mai stato uno spazio pubblico di discussione sui fatti e sulle responsabilità. Il Parlamento, anche in questo caso, non ha voluto istituire una commissione d’inchiesta, e non è stato possibile riaprire il caso sul piano giudiziario.
Così un’ombra lunga e pesante continua a gravare sulle nostre forze dell’ordine, che mai hanno dato la sensazione, sulla vicenda di Genova G8, di sentirsi parte di una comunità democratica cui rendere conto del proprio operato. Nessuno ha esaminato i dubbi documentati dalla contro inchiesta su piazza Alimonda, nessuno -come nel caso di Giorgiana Masi- ha considerato quale sia in casi del genere il preminente interesse pubblico: la trasparenza, l’apertura al confronto, l’assunzione piena di responsabilità, anche al di fuori delle aule giudiziarie.
Un giorno qualcuno dovrebbe scrivere una storia sociale delle nostre forze dell’ordine, mettendo in luce tanto i fatti quanto i silenzi e le omissioni: scopriremmo, probabilmente, che esse sono l’altra faccia -quella più oscura- di una medaglia che rappresenta il volto sfigurato di una democrazia mai davvero compiuta.
Lorenzo Guadagnucci è giornalista del “Quotidiano Nazionale”. Per Altreconomia ha scritto, tra gli altri, i libri “Noi della Diaz” e “Parole sporche”
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