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Precario e non scelto, in Italia il part-time penalizza l’accesso delle donne al lavoro

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Più di un milione e mezzo di lavoratrici sono occupate con contratti di lavoro parziale perché spesso è l’unica opzione disponibile. Una condizione involontaria legata a precarietà e a bassi salari, peggiorata da quasi un decennio dalla normativa del Jobs Act. Le proposte del Forum disuguaglianze e diversità per affrontare il problema

“Ho 28 anni e lavoro da quando ne ho 19. Da sei anni lavoro part-time e faccio due lavori. Volevo fare l’università ma avevo una situazione familiare un po’ critica. All’inizio facevo sostituzioni malattia e stavo a sei, sette ore (a settimana, ndr), con la promessa di essere assunta. Ho tenuto duro e mi hanno assunta a 17 ore e mezzo facendomi un contratto fisso, con la promessa che l’orario sarebbe aumentato, cosa che dopo sei anni non è successa”.

La storia di Giulia (nome di fantasia) è la migliore sintesi di quella condizione lavorativa che oggi in Italia riguarda oltre due milioni di persone: il part-time involontario. Si verifica quando un lavoratore o una lavoratrice accettano un contratto a tempo parziale per necessità, non per scelta, a causa della mancanza di opportunità di lavoro a tempo pieno.

I numeri che raccontano questo fenomeno in Italia non hanno eguali in Europa. Sebbene nel 2022 la quota dei lavoratori italiani a tempo parziale (18,2%) si sia avvicinata a quella media europea (18,5%), più di uno su due di questi occupati (56,2%) nel nostro Paese si trova in questo regime orario non per libera scelta (Eurostat). E per la maggior parte si tratta di donne (circa il 68%), che sono anche coloro che in percentuale più alta svolgono impieghi a tempo parziale.

Così, mentre nel mondo si stanno sperimentando contratti di lavoro che permettono una riduzione delle ore giornaliere per consentire a tutti un migliore equilibrio tra i tempi di vita e quelli di lavoro, in Italia i lavoratori e le lavoratrici parziali desiderano lavorare di più. Questo a causa del fatto che al part-time involontario risultano strettamente connesse forme di lavoro precarie, più fragili, meno remunerative e soddisfacenti. Un paradosso occupazionale italiano descritto dal reportDa conciliazione a costrizione: il part-time in Italia non è una scelta”, realizzato da un gruppo di ricercatori e studiosi coordinati dal Forum disuguaglianze e diversità e presentato a metà maggio.

Il documento evidenzia bene la componente di genere del fenomeno: tra i diversi fattori che hanno inciso sulla sua crescita c’è infatti l’aumento della partecipazione femminile al mercato del lavoro che è passata dal 45,4% del 2004 al 52,2% del 2023. Parallelamente è cresciuta la quota di lavoratrici che sul totale delle donne occupate lavora a orario ridotto: dal 24,9% al 31,5% (Istat). Riprendendo i dati della quinta indagine dell’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche (Inapp) “Qualità del Lavoro nella sua componente relativa alle unità locali” del 2021, il Forum riporta che il 12% delle imprese italiane fa un uso strutturale del part-time, inquadrando oltre i due terzi (70%) delle persone occupate in regime di orario ridotto. Tra queste emergono in particolare quelle che operano nel macrosettore degli “altri servizi” e nel macrosettore del commercio e turismo. Nello specifico nella grande distribuzione e nel settore dell’alloggio e ristorazione la concentrazione di un ricorso strutturale al part-time è rispettivamente al 24,6% e del 15,9%. Ma è molto diffuso anche nelle imprese di pulizie, mense e dei servizi alla persona. Sono quei settori caratterizzati dagli appalti, quindi dalla pressione di riduzione dei costi, e da alta flessibilità degli orari.

Rilevante è inoltre il dato che riguarda la polarizzazione rispetto alla dimensione dell’impresa: si tratta infatti principalmente di microimprese (meno di cinque addetti) e imprese molto grandi con oltre 250 addetti. A queste caratteristiche si aggiunge una bassa propensione di queste imprese all’utilizzo di strumenti di flessibilità e lavoro agile, una probabilità inferiore di svolgere attività formative per chi lavora, una scarsa propensione agli investimenti in innovazione e tecnologia e una bassissima presenza di rappresentanze sindacali. Secondo i ricercatori del Forum, tutte queste componenti segnalano quanto “il ricorso al part-time in Italia sia legato più a strategie delle imprese che a esigenze degli individui di conciliazione tra lavoro e vita privata”. I dati mostrano inoltre che quello involontario è più frequente nel Mezzogiorno, tra le persone straniere, tra chi possiede un basso titolo di studio e tra le persone con un impiego a tempo determinato.

La diffusione di questa condizione lavorativa in Italia è stata agevolata anche da alcuni interventi normativi, spiegano i ricercatori. Negli anni Ottanta era nata l’esigenza di regolare l’orario ridotto e una serie di atti si sono susseguiti negli anni. Il principio alla base della norma iniziale era che il part-time dovesse essere anzitutto una scelta del lavoratore e della lavoratrice, all’interno di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato con orario determinato variabile secondo criteri contrattuali e/o con il consenso del lavoratore o lavoratrice e con possibilità di essere reversibile.

“Con la legge 81/2015 (il cosiddetto Jobs Act, ndr) vengono meno alcune norme di principio fondamentali”, si legge nel documento: anche i contratti a tempo determinato possono essere part-time; non si distingue più la tipologia (verticale e orizzontale), diventano “corredo” del tempo parziale le clausole elastiche, il lavoro supplementare e il lavoro straordinario. Questi strumenti in particolare prevedono la possibilità di modificare la fascia oraria della prestazione lavorativa e aumentare il numero delle ore di lavoro rispetto a quanto fissato originariamente, senza consentire alla lavoratrice o al lavoratore di organizzare la propria giornata. “E come sono ripartite quelle ore è tema di contrattazione individuale, indebolendo così la contrattazione collettiva e favorendo la ricattabilità della lavoratrice o del lavoratore”, sottolinea il Forum. Questo perché il Jobs Act ha escluso la necessità del consenso del lavoratore e della lavoratrice allo svolgimento delle prestazioni di lavoro supplementare e inoltre, in assenza di previsioni ad hoc da parte dei contratti collettivi, il datore di lavoro è comunque libero di pretendere dalla persona che lavora lo svolgimento di ore lavorative extra, purché tali ore non superino il 25% delle ore di lavoro settimanali concordate.

Il report del Forum propone una serie di misure per superare i problemi che questa impostazione provoca alle lavoratrici e ai lavoratori. Per Susanna Camusso, senatrice del Partito democratico ed ex segretaria generale del sindacato Cgil, uno dei problemi da affrontare è la pensione: “Questi lavoratori ricevono spesso retribuzioni basse e rischiano di non maturare i contributi ai fini dell'accesso alla pensione, perché è molto probabile che non riescano a raggiungere le soglie contributive necessarie. Quindi devono affrontare un doppio problema: quantità dell’ammontare della possibile pensione e tempo di arrivo a essa”. Per questo una delle possibili aree di intervento per disincentivare il part-time involontario prevede l’introduzione di una contribuzione crescente. Più dura il contratto a tempo parziale maggiori saranno i contributi nel tempo, e questo perché nell’idea del Forum il part-time dovrebbe essere una scelta momentanea, non l’unica forma lavorativa. Dal punto di vista della contrattazione si propone inoltre di associare il part-time al tempo indeterminato e di migliorare gli strumenti per la tutela contrattuale, un numero minimo di ore, una precisa fascia oraria e non ore di lavoro frammentate. Come disincentivi alle forme involontarie si chiede di prevedere un sistema di denuncia efficace e incentivi per la trasformazione da contratto part-time a tempo pieno. Infine, l’aumento dei controlli per verificare l’aderenza alle clausole concordate nella contrattazione, i contributi annui sufficienti a raggiungere la soglia, le ore effettivamente lavorate coerenti con quelle previste nel contratto.

“Il senso è quello di prevedere una migliore contrattazione e legislazione come strumenti di supporto, perché si esca sia dalla costrizione di dover accettare questa condizione sia dalla marginalizzazione che questa poi comporta non favorendo un ingresso integrale nel mondo del lavoro”. Per Camusso intervenire su questo fenomeno è fondamentale per garantire i diritti delle donne: “Se il lavoro deve essere il luogo della libertà femminile che permette autonomia, autodeterminazione e autosufficienza, quando è un lavoro costrittivo e che per giunta non permette quell’autodeterminazione, diventa una nuova forma di violenza nei confronti delle lavoratrici”.

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