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Terra e cibo / Opinioni

A scuola di cibo, il cibo nella scuola

© Zoe Schaeffer - Unsplash

Come far entrare (e rimanere) il cibo, la sua produzione e trasformazione, il suo “consumo” nella scuola? Dal rischio di ridurre il tutto a una mera circolare alla preparazione del personale, fino alla schizofrenia ministeriale delle prugne in aula ad aprile. Alcuni appunti sull’educazione alimentare di un insegnante in pensione che si è occupato anche di approccio al piacere del cibo

Entrare nel dibattito sull’educazione alimentare, significa, per me, dibattere dell’enorme potenzialità sottesa all’andare “a scuola di cibo” e al fare entrare il cibo, la sua produzione e trasformazione, il suo “consumo” nella scuola. Ciò per permettere a soggetti che si stanno formando l’opportunità di avere strumenti per divenire protagonisti delle scelte alimentari, proprie e della propria comunità, quale essenziale pratica della cura di sé.

Ho, naturalmente, sottoscritto di buon grado l’appello di Slow Food. Perché, tuttavia, l’introduzione dell’educazione alimentare nei curricoli di ogni ordine e grado non sia banalizzata o sterilizzata, come avviene oggi, serve sviluppare un esteso dibattito sociale sul valore del cibo, sulla pervasività del tema cibo perché non solo esso attraversa i nostri corpi e forma le nostre menti, quanto ci fornisce una possibile lettura del mondo.

Dopo un’intensa carriera di docente, svolta anche a proposito di approccio al piacere del cibo, alla sua produzione-confezione-consumo a scuola con i ragazzi, (quando ancora lo si poteva agire) credo sia preliminare necessità sgombrare il campo da una serie di rischi o trappole. Due in particolare: il rischio di asfissia e di sterilizzazione della proposta, da un lato; la necessaria e preliminare formazione a 360 gradi di tutto il personale scolastico, dai massimi dirigenti in giù, a seguire.

La prima partita. Quando nel dibattito sociale emerge un tema, si rileva una carenza o si auspica un cambiamento scatta immediatamente il riflesso condizionato: “bisogna inserirlo nei programmi della scuola”. Dalla comparsa dell’educazione ecologica negli anni Settanta, dopo i primi disastri ambientali di cui si è avuta percezione diffusa, all’attualissima educazione all’affettività, a seguito dell’emersione del fenomeno della discriminazione e violenza di genere, si è levato un coro unanime perché queste siano inserite in programmi già congestionati quanto enciclopedici.

La scuola è il contenitore in cui stipare, annacquare o annegare, i contenuti del dibattito del momento. Non passa anno scolastico in cui non si “scoprano” deficit e mancanze di formazione di cui la scuola debba farsi carico. Il pachiderma ministeriale, tuttavia, è abituato a farsi attraversare da qualsiasi questione, riducendola a una nuova circolare, una qualche ora da inserire in calendario, una nuova materia da accludere al curricolo, una nuova competenza da snocciolare nei profili. Parimenti ogni nuovo ministro si diletta a immaginare riforme e contro-riforme che scuotono, quasi mai a fin di bene, l’intero corpo scolastico. Per cui la banalizzazione e lo svuotamento di ogni novità è pratica consustanziale, verso cui, spesso, anche il corpo docente è silente o disarmato complice, soprattutto perché frastornato dall’eccessiva pressione che si scarica sull’istituzione a fronte di una struttura inamovibile ed impermeabile, nelle sue articolazioni di orari, modelli, luoghi e contenuti. Struttura rigida quanto intrisa a tutti i livelli -docenti compresi e in quantità crescente man mano sale la fascia d’età dei discenti- di una perdurante concezione riduzionista e lineare del sapere, inteso eminentemente in dimensione quantitativa.

E qui sta la seconda partita. Questo sfondo culturale e cognitivo genera nei docenti stessi un’ansia produttivistica (“finire il programma”), che stenta a farsi permeare dall’evidente preminenza delle connessioni, dall’ineludibile bisogno di co-costruire competenze meta e transdisciplinari. Peraltro l’assillo di cui sopra è, spesso, alimentato anche dall’utenza. E questo è un limite enorme perché già nelle Indicazioni nazionali del 2012, l’impianto formativo è, o dovrebbe essere, fortemente improntato ad una visione olistica dell’educazione e al nesso cogente tra apprendimento e benessere della persona, dell’ambiente e del vivente tutto. In più, in occasione di Expo 2015, il Miur aveva emanato delle Linee guida per l’educazione alimentare nelle scuole, grandemente disattese.

Condividendo quanto sollecitato da Carlo Petrini, fondatore di Slow Food, sulle pagine de il manifesto, in particolare nell’inserto ExtraTerrestre del 9 maggio, serve ammettere che siamo di fronte a scogli e ingombri resi ancor più ostici da una scarsa attenzione sociale al valore formativo della ricerca-azione, indagine e pratica a proposito del cibo. Se è vero che nelle generazioni dello scorso millennio l’educazione a rispetto e consumo di cibo era attribuzione della sfera familiare, oggi, si sa, in casa si cucina sempre meno, non ci si procura il cibo al mercato o direttamente dal produttore, tantomeno si coltiva l’orto o si allevano animali da cortile. E ancora quale genitore interroga la scuola sul perché il proprio figlio non sappia la differenza tra un formaggio a latte crudo e uno da latte pastorizzato o tra un pesce pescato e uno allevato, piuttosto che tra un grano biologico e uno coltivato con uso di pesticidi?

Eppure le differenze, non sfumature, di cui sopra hanno un’impronta ambientale e sulla salute di segno assai consistente; allo stesso modo è noto che la produzione del cibo, segnatamente in territori quale la grande distesa padana, impatta su qualità di aria, acqua e suolo, perciò su benessere e salute, in forma palesemente determinante. Certo la potenza comunicativa e finanziaria dei “padroni del cibo” è incontenibile. La connivenza tra gruppi farmaceutici, multinazionali dei semi, produttori di macchinari agricoli, grande distribuzione organizzata, gruppi editoriali e, in taluni casi, organizzazioni di categoria è stringente e soffocante, oltreché sovraordinata rispetto alle istituzioni della democrazia elettiva. Non a caso ha avuto facile gioco nell’indurre uno strabismo in certa parte del “movimento dei trattori” portandolo a direzionare i suoi strali nei confronti di Green Deal e Nature restoration law anziché contro il monopolio dell’agrobusiness, con una buona dose di autolesionismo agricolo.

Tornando al valore sommamente formativo dell’educazione alimentare ne farei emergere i topos fondamentali: orto scolastico e mensa con cucina interna. O, almeno, nei casi dove sia vigente l’orario solo antimeridiano, l’introduzione curricolare di una pratica strutturata di laboratori del gusto articolati in un calendario esteso e onnicomprensivo. Questo fungerebbe comunque da alto momento di approccio, manipolazione, esame multisensoriale e culturale a tutto tondo del cibo.

L’introduzione di un curricolo interdisciplinare di educazione alimentare non può non considerare questi capisaldi. Per certo l’essenziale trasversalità connessa al cibo, da sola, traccia strade non derogabili se si vuole davvero entrare nel tema e non indugiare, come spesso si fa, sui nutrienti del cibo con meri criteri quantitativi che non tangono quasi mai provenienza e proprietà, natura e qualità di proteine, lipidi, glucidi, vitamine e sali minerali, della stessa fondamentale acqua che beviamo. Vale la stessa moneta a proposito di food security, quasi sempre ridotta a food safety (tracciabilità, igienicità dei prodotti), quasi mai intesa come garanzia e diritto di accesso a un cibo vivo, sano, nutriente, piacevole dovunque e per tutti.

Anche la retorica sulla dieta mediterranea o, peggio, sul millantato Made in Italy, vera e propria bufala inconsistente, portano lontano dal fulcro. Si misconosce, quindi, quanto la narrazione del e sul cibo parli di ambiente e biodiversità, implementi storia e geografia, permetta di fornire elementi di chimica e di fisica, sia imprescindibile compagna di antropologia ed economia, attraversi le religioni, partecipi alla definizione identitaria e culturale di comunità e popoli, persino agisca da cartina al tornasole del livello di diseguaglianza e discriminazione di classe.

A questo proposito, l’impreparazione di grossa parte del corpo docente è eclatante e questo è il secondo vulnus cui si accennava. Non mancano le iniziative divenute occasioni perse perché, pur promosse dal ministero con intenti educativi, finiscono per diventare controproducenti. Un esempio su tutti la campagna “frutta nelle scuole”, che, a seguito di insulsi meccanismi di bando, porta sui banchi di scuola le prugne ad aprile, naturalmente immangiabili, confezionate asetticamente in mono porzioni avvolte in plastica. Questa frutta è distribuita uniformemente e contestualmente su tutto il territorio italiano e finisce puntualmente nel secchiello del compost, a fronte di una dissipazione energetica e produzione di residui tossici a go-go.

Provando a suggerire soluzioni che implichino un radicale cambio di rotta torno inevitabilmente a orto e cibo a scuola. Coltivando un orto a scuola si incontrano tutte le implicazioni didattiche ed educative sopra sommariamente elencate. Ma anche di più. Organizzando uno spazio dedicato alla produzione agricola e alimentare si coltivano relazioni, tra pari, tra studenti e insegnanti, tra generazioni, tra cittadini ed amministratori, tra cultura “alta” e saperi esperienziali. La cura dell’orto è cura di sé, del vivente, di un pezzo di mondo. Esempio alto di capacità di interiorizzare il senso del tempo e delle stagioni, il valore dell’attesa e dei vuoti, la nobiltà della fatica, l’importanza dell’autodisciplina. È pure, last but not least, educazione alla bellezza: all’estasi che dona un seme sbocciato dal terreno, all’armonia che regola la danza di un’ape attorno ad un fiore di pomodoro o di rosmarino.

I ragazzini, attori del cibo, sono i migliori testimonial della sua bontà complessa, ambasciatori di cambiamento, capaci di trasmetterne e renderne virale la sua necessità. En plus. Consumare un pasto a scuola, in occasione comunitaria, se è un pasto cucinato in loco, magari con alcuni ortaggi cresciuti dagli stessi alunni o studenti ha un significato incommensurabile. In un Paese dove crescono le nuove povertà è spesso occasione unica quotidiana per consumare un pasto completo ed equilibrato. La somministrazione a scuola di pasti assortiti, gustativamente interessanti, studiati con la collaborazione significativa degli studenti, supportati da “esperti” e istituzioni vive (non asettiche dispensatrici di idoneità igienico sanitaria), fa la differenza. Perché il cibo cucinato nei locali scolastici, ricco dei suoi profumi, delle sue consistenze, dei suoi colori, servito caldo in tavola, offerto in piatti e non in tetri vassoietti rigenerati al microonde, riavvicinerebbe queste generazioni deprivate del piacere del cibo alla sua immensa complessità e ridurrebbe considerevolmente lo spreco che, ancora in proporzioni inaccettabili, affligge la refezione collettiva a scuola e altrove.

Decisamente serve ripensare, nella scuola pubblica, a priorità e risorse, strutture, spazi e tecnologie adeguati, articolazione diversa della proposta didattica, personale formato e motivato, utenti-fruitori esigenti e attenti. Difficile e complesso? Sicuramente. Ma non è, e almeno questa volta lo si può affermare con forza, opzione bella e impossibile per limitate finanze o di disponibilità di fondi. Con il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), complice la sofferta esperienza della scuola in Didattica a distanza (Dad) a seguito del lockdown, sono piovuti centinaia di milioni di euro sulle scuole. Questi fondi sono stati usati per promuovere competenza e cittadinanza digitale in un’ottica di innovazione delle tecnologie e del loro utilizzo da parte delle giovani generazioni: una piccola rivoluzione, inimmaginabile soltanto una decina di anni fa.

Rivoluzione che ha però visto anche il rovescio della medaglia con dotazioni top level finite non di rado, e non parlo dei tavoli a rotelle risoltisi in barzelletta, a riposare intonse e inutilizzate in magazzini perché si doveva, in qualche modo, esaurire il budget, o restituire i fondi ottenuti. Oltre alla apprezzabile transizione digitale perché non lavorare per una transizione ecologica a partire dal cibo, a partire dalle giovani generazioni? Perché, come accade del resto in altri Paesi europei, non pensare la scuola quale spazio di socialità aperto abitualmente all’esterno a cominciare da orto e mensa? Farebbe bene a tutti, anche alla politica, disattenta in genere al tema cibo -quando non sia spettacolo- e all’agricoltura -quando non sia mero consenso elettorale-.

C’è bisogno davvero di alimentare l’educazione. Imparo a mangiare, è un atto agricolo, parafrasando Wendell Berry, ma anche un atto rivoluzionario perché interroga la sostenibilità delle filiere, indaga le diseguaglianze e le ingiustizie che produzione e consumo di cibo disegnano nei nostri quartieri, nelle periferie urbane e nel mondo.

Lorenzo Berlendis, docente in pensione, si è occupato di progetti di rigenerazione territoriale, anche come dirigente di Slow Food Italia

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