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Una giustizia per pochi. Rischi e forzature dei progetti di “riforma”
La proposta di legge degli avvocati per la separazione delle carriere dei giudici e pubblici ministeri torna in discussione in Parlamento. Dopo un percorso di decenni, questa volta la maggioranza è ampia. Ma giova davvero ai cittadini?
Dunque, ci siamo. Cinquant’anni fa la P2 di Licio Gelli elaborava un progetto di torsione autoritaria delle istituzioni, il cosiddetto “Piano di rinascita democratica” che, tra gli obiettivi funzionali alla ridefinizione del ruolo della magistratura, indicava la separazione delle carriere dei giudici e dei pubblici ministeri. L’obiettivo è ora alla portata di mano dell’ampia maggioranza parlamentare di questa legislatura, che lo ha raccolto all’esito di un lungo percorso. È stato infatti una costante nel dibattito politico sulle riforme istituzionali, soprattutto dopo che profondi cambiamenti economici e sociali hanno portato a un ruolo sempre più attivo della magistratura, chiamata a governare conflitti e ad affermare nuovi diritti, in un processo di rinnovamento, anche generazionale e di emancipazione dalle residue eredità culturali del passato fascista. Nel realizzare il disegno costituzionale riconosciuto come unico potente motore valoriale, il controllo di legalità esercitato con autonomia entra in conflitto naturale con la politica, anch’essa soggetta alla legge conforme alla Costituzione.
In tempi più recenti, come nella piattaforma eversiva che ne mantiene il copyright, la separazione delle carriere dei magistrati viene inserita tra ipotesi di riforme istituzionali di impronta maggioritaria, in nome della efficienza dell’esecutivo e della sua stabilità, compromesse dalle dinamiche rappresentative di tipo proporzionale. Diviene quasi ossessione dei governi di Berlusconi, passando per i compromessi poi falliti della Bicamerale, dove si palesa nel suo vero scopo di arginare, attraverso il controllo dell’azione penale, l’asserita ingerenza delle procure nei terreni della politica. Non a caso, infatti, si prospetta anche l’abbandono dell’obbligatorietà dell’azione penale, principio costituzionale che neppure Gelli s’era avventurato a intaccare direttamente.
La legge di iniziativa popolare presentata dall’Unione Camere Penali, l’associazione degli avvocati penalisti italiani, appena riproposta in questa legislatura (114 sono gli avvocati in Parlamento), è il disegno più recente e organico sul tema. L’obiettivo dichiarato, anche per la fonte da cui proviene, attiene alle garanzie del processo, in particolare alla posizione del giudice che, per essere “terzo” e non solo “imparziale” nel contraddittorio, come previsto dal nuovo testo dell’articolo 111 della Costituzione, non potrebbe appartenere allo stesso “corpo” del Pm. Il riassetto dell’architettura costituzionale della magistratura è, tuttavia, più ampio e palesemente diretto al ridimensionamento del suo peso rispetto alle istituzioni politiche. Si prevedono due Csm, con ridotti compiti di mera gestione amministrativa di nomine e carriere, uno per i Pm e uno per i giudici, ma con composizione profondamente alterata rispetto all’attuale: in entrambi gli organi, i membri di nomina politica aumentano fino alla metà (il solo voto del vertice della magistratura giudicante o requirente, membri di diritto, assicura in via teorica la maggioranza dei togati, quindi la definizione di autogoverno).
È previsto l’accesso di avvocati e professori universitari a ogni livello della magistratura, senza la garanzia di accesso esclusivo con concorso e il divieto di passaggio per i pubblici ministeri nel ruolo dei giudici: per loro una sorta di marchio d’infamia che impedisce ciò che è libero per gli altri giuristi di professione. Per finire, scompare l’obbligatorietà dell’azione penale. Il disegno è in consonanza con le attuali spinte involutive nelle democrazie dirette a limitare l’azione delle istituzioni di garanzia, in primo luogo la magistratura, nel nome di una rivendicata onnipotenza del legislatore e quindi della maggioranza governativa legittimata dal voto plebiscitario, anche grazie a mirate manipolazioni dei sistemi elettorali. In questo sconquasso di equilibri costituzionali è una foglia di fico la retorica sul giusto processo, di cui godrebbe alla fine il cittadino. Troppa grazia.
Alcune proposte sono presentate come conseguenza necessitata dalla scelta del processo accusatorio. È un richiamo più ideologico che corrispondente a modelli reali: difficile, infatti, individuare il vero nucleo del sistema accusatorio della tradizione anglosassone esportabile al di fuori di quel contesto o le caratteristiche di quello continentale cosiddetto inquisitorio, solo storicamente riconducibili, il primo al consolidarsi dello Stato liberale, l’altro al permanere di quello assolutista. Nelle democrazie liberali europee è infatti assolutamente prevalente l’inquisitorio.
Così nel nostro sistema sono inseriti solo alcuni principi dell’accusatorio, poggianti però sull’impianto della tradizione storica continentale, il corpo della magistratura reclutata burocraticamente. La grande differenza tra i due sistemi sta proprio nella fase delle indagini. Nell’accusatorio le parti si muovono secondo una logica privatistica e partigiana di una contesa: ciascuno porta a un giudice gli elementi che vuole per sostenere la sua tesi. Al contrario, nell’altro modello, le indagini sono affidate a un organo statale che in maniera neutra raccoglie le prove. Sullo sfondo c’è una concezione della giustizia che mira all’accertamento dei fatti come base per la decisione, che non è lo stesso obiettivo del processo accusatorio, dove il giudice, la giuria, conosce solo quello che le parti gli fanno sapere, perché qui l’obiettivo è la composizione di un conflitto.
Pur avendo il nostro codice abolito la figura del giudice istruttore, che impersonava accanto al Pm l’organo statale deputato alla ricerca delle prove, ha conservato l’obbligo del Pm di accertare i fatti a tutto campo per determinarsi all’azione e quello di rivelare integralmente il suo fascicolo. Doveri sconosciuti nei sistemi accusatori reali, dove invece la partigianeria dell’accusa nelle indagini, con i tragici errori che si porta dietro, è continuamente denunciata, tanto da aver più volte generato l’auspicio di introdurre un sistema come quello continentale. Chi da noi vuole un Pm separato dal giudice, enfatizza come valore la diversa mentalità antagonista che dovrebbe avere rispetto al giudice e irride alla “cultura della giurisdizione”, formula che la magistratura ha sempre rivendicato come propria anche della funzione inquirente.
“Il disegno è in consonanza con le attuali spinte involutive nelle democrazie dirette a limitare l’azione delle istituzioni di garanzia, in primo luogo la magistratura”
Sfugge il senso della ripulsa dei riformatori a un pubblico ministero la cui ottica non è vincere ma fare giustizia. Perché insomma rinunciare a un magistrato che sia guidato non solo dalla deontologia, quindi che non si metta a barare, come avviene non di rado nei sistemi accusatori, ma che abbia uno statuto istituzionale che lo metta al servizio della legalità nella ricerca delle prove, non subalterno agli interessi dell’esecutivo e dell’apparato repressivo delle polizie. È del tutto ovvio che un Pm “separato” consoliderà la mentalità non della giurisdizione ma dell’amministrazione.
È pur vero che i sostenitori della riforma vorrebbero escludere una sua dipendenza dal governo, ma se non hanno lingua biforcuta, sono dilettanti illusi. Un corpo separato di pubblici ministeri, composto da uffici gerarchizzati, investito di scelte ancor più discrezionali, che dispone di una polizia giudiziaria, non può che richiamare una responsabilità o un raccordo stretto con l’autorità politica. Diversamente si tratterebbe di una concentrazione di poteri che non ha eguali negli ordinamenti costituzionali.
Si torna all’argomento clou dei riformatori, quello della terzietà del giudice, incompatibile con l’appartenenza del Pm, una delle parti, allo stesso ordine giudiziario. In questa ottica, tuttavia, il solo giudice terzo è la giuria popolare, non a caso cardine su cui si regge il sistema accusatorio reale (questo, infatti, è ciò dice in sostanza la Corte suprema americana). Rispetto al cittadino imputato, un funzionario statale vale come un altro quanto a terzietà. È terzo il giudice americano nominato politicamente rispetto al procuratore di eguale nomina o dello stesso partito? Quanto pesa allora nel concreto qui da noi la carriera unica nelle decisioni dei giudici? Poco o niente si direbbe: le statistiche distruggono ogni ipotesi di sudditanza rispetto ai Pm. Sono gli stessi avvocati a denunciare l’altissima percentuale di assoluzioni che in certi tribunali sfiora il 60%. Senza uno straccio di prova, il condizionamento dei Pm rimane un mero argomento psicologico che potrebbe valere anche tra i giudici e i colleghi dei gradi superiori. E quanti fra giudici e pubblici ministeri cambiano funzione? Il fenomeno si direbbe non reale (il dato registrato è l’1%) e questo con la possibilità di quattro passaggi in tutta la carriera, ora ridotti a uno solo dalla riforma Cartabia.
La quota di giudici e pubblici ministeri che in Italia ha cambiato funzione tra il 2006 e il 2017 è dell’1%. La “riforma Cartabia” ha peraltro ridotto da quattro a uno i passaggi possibili in carriera
Perché, infine, abolire l’obbligatorietà dell’azione? Questa garanzia (per la Corte costituzionale è la declinazione del principio di eguaglianza) si dice, pur in assenza di rilevazioni statistiche di supporto, andrebbe abolita perché di fatto non osservata. La garanzia dovrebbe essere riposta nel legislatore, cioè nelle maggioranze del momento, dimenticando che l’uguaglianza vale per chi ne è fuori.
Qui si confondono problemi diversi. Poiché il carico di lavoro è eccessivo (ma i reati li crea il legislatore), si è costretti a fare delle scelte di priorità che, si insiste, non possono essere lasciate nelle mani dei Pm. Si trascura che le forze di polizia già seguono direttive di politica criminale che detta l’esecutivo. Non a caso numerosi sono stati in passato i tentativi di riforma tesi a impedire al pubblico ministero di indagare al di fuori dell’impulso della polizia. I criteri di priorità, autoimposti nella prassi fino a ora corrente, servono ad assicurare trasparenza; provenendo dalla politica si trasformano invece in direttive. La riforma Cartabia, che prevede criteri generali fissati dal Parlamento, ha purtroppo già ceduto. La posta in gioco è chiara: c’è una giustizia per i molti, che riempie le galere ed è anche rapida, e un’altra per i pochi, con regole e garanzie che non sono mai sufficienti. Il liberalismo che si invoca non è quello sociale della Costituzione e dei diritti universali ma quello dei buoni borghesi, di chi ha le possibilità di ingaggiare la tenzone; per gli altri la resa di fronte all’accusa, che sarà affare del governo.
Enrico Zucca è sostituto procuratore generale di Genova. È stato pubblico ministero del processo per le torture alla scuola Diaz durante il G8 dell’estate 2001
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