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Diritti / Opinioni

Il processo accusatorio non è la soluzione per le diseguaglianze e la disumanità

Per la riforma del sistema penale si evoca ancora il modello anglosassone, dove i procuratori soggetti al governo davvero dettano legge. La rubrica di Enrico Zucca

Tratto da Altreconomia 248 — Maggio 2022
La Corte suprema degli Stati Uniti © Adam Szuscik, unsplash

In tempi di riforma del nostro sistema penale, la narrativa corrente descrive inefficienza, abusi giudiziari, scempio dei diritti, sempre a opera di onnipotenti pubblici ministeri. Fa bene allora essere consapevoli di ciò che accade nei sistemi dove vige il modello accusatorio, di stampo anglosassone, evocati invece come giardino dell’Eden. Kalief Browder aveva 16 anni quando fu arrestato nel 2010 a New York con l’accusa di aver sottratto con violenza uno zainetto. Avrebbe dovuto pagare una cauzione per essere fuori. Non avendo i mezzi, rimase per oltre tre anni nel carcere di Rikers Island -ritenuto uno dei peggiori al mondo- subendo violenze e periodi di isolamento per due anni. La Procura gli offrì di patteggiare una pena, ma proclamandosi innocente Kalief aspettava solo il giorno del giudizio, che non arrivò mai, perché alla fine la Procura ritirò le accuse avendo perso contatti con il denunciante.

Le norme sul processo celere (lo speedy trial tanto richiamato nel dibattito italiano) impongono di celebrare il giudizio entro 90 giorni dall’arresto o incriminazione. Questo sulla carta. Il termine, quando non è rinunciato (a volte è meglio avere più tempo per difendersi) o aumentato per la complessità del caso, può sospendersi per molte ragioni, anche solo se la Procura dichiara di non essere pronta. Chiede il rinvio di una settimana e il giudice fissa l’udienza successiva quando può inserirla nel suo calendario ingolfato. Così è successo a Kalief per ben 33 volte. L’epilogo della vicenda è tragico.

Sopraffatto da quell’esperienza, due anni dopo la liberazione si tolse la vita, come aveva già tentato di fare in carcere. Il caso richiamò l’urgenza di riforme. “Legge di Kalief” si chiama, infatti, la normativa, in vigore dal 2020, che riduce le ipotesi di cauzione, consentendo la liberazione di migliaia di carcerati presunti innocenti. Si è poi vietata la detenzione dei minorenni alle stesse condizioni degli adulti, ma soprattutto s’è imposto ai pubblici ministeri di scoprire le loro carte prima del giudizio, cosa cui non erano obbligati. Più il caso ristagna, più alta è la pressione a patteggiare una pena per essere scarcerati. Il procuratore per chiudere il caso può proporre non solo la pena, ma anche contestare a sua discrezione i reati in numero e gravità. Kalief pretendeva il processo, ma non aveva idea di quanto fossero rari i giudizi (il 2-5% dei casi).

Sono tre gli anni che il sedicenne Kalief Browder ha trascorso in carcere in attesa del processo per aver sottratto uno zainetto negli Usa. Il giovane non è mai comparso davanti ai giudici perché la Procura ha ritirato le accuse a suo carico. Due anni dopo la liberazione, Browder si è tolto la vita

Alle riforme è da subito seguita una forte resistenza, tanto che in parte sono state demolite. È radicata infatti la concezione che, come dice la Corte suprema, il sistema penale Usa non sia un sistema di giudizi, ma di accordi negoziati. Durante la pandemia, approfittando dell’aumento delle statistiche di alcuni delitti, i procuratori, le forze di polizia e molti politici hanno creato allarmismo e si è già allungata la lista dei delitti per cui è reintrodotta la scarcerazione solo su cauzione.

Un più rigoroso rispetto dei tempi del processo, per cui la congestione delle cause non è più una scusa, e l’obbligo di fornire subito materiale alla difesa hanno avuto come effetto l’esodo a frotte dei procuratori: circa un quinto negli uffici di Manhattan, Brooklyn e nel Bronx si è dimesso, lamentando l’insostenibilità del lavoro aggiuntivo nel passare una montagna di carte in tempo utile e per la stessa paga. Come si vede, i problemi sono vitali: si tratta di tempi del processo, carcerazione ingiustificata e disumana, garanzie processuali, diseguaglianza e discriminazione. Quello che non si comprende è per quale ragione il principale rimedio invocato per la giustizia sia da noi la separazione delle carriere. Auguriamoci che l’Eden agognato con i suoi potenti procuratori soggetti al governo, non alla sola legge come i giudici, non sia l’inferno del nostro futuro.

Enrico Zucca è sostituto procuratore generale di Genova. È stato pubblico ministero del processo per le torture alla scuola Diaz durante il G8 dell’estate 2001

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