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Crisi climatica / Attualità

Troppo caldo per lavorare

Un frame del documentario "Too hot to work" ©TSVP/Art

Il documentario “Too hot to work” del giornalista francese Mikaël Lefrançois indaga gli impatti dell’aumento delle temperature sulla salute dei lavoratori in diverse parti del mondo. Un fenomeno che colpisce in modo particolare coloro che sono più vulnerabili ed esposti al rischio di sfruttamento. Alimentando così le disuguaglianze globali

La provincia di Chichigalpa, sulla costa occidentale del Nicaragua, è il cuore della coltivazione di canna da zucchero nel Paese. Qui una “misteriosa” malattia è responsabile di circa la metà dei decessi registrati tra gli uomini negli ultimi vent’anni, al punto che una delle comunità rurali della zona si è guadagnata il tragico soprannome di “Isla de viudas”, l’isola delle vedove. Nelson Martinez a 38 anni lavorava nei campi di canna da zucchero prima che i suoi reni cedessero, costringendolo a tre cicli di dialisi a settimana per sopravvivere: “Anche mio fratello minore faceva lo stesso lavoro e come me ha una malattia renale cronica -racconta l’uomo-. Sudavamo tutto il giorno, ma non potevamo fermarci per bere: eravamo disidratati. E i sorveglianti ci mettevano sotto pressione per farci continuare”.

Il lavoro nei campi di canna da zucchero è estenuante. La raccolta, in particolare, si svolge sotto il sole durante i mesi più caldi dell’anno quando le temperature sfiorano i quaranta gradi. Le pause all’ombra per riposarsi e bere sono poche e i sorveglianti spingono i tagliatori a fermarsi il meno possibile. Queste condizioni, sommate all’intenso sforzo fisico richiesto ai tagliatori, creano un forte stress termico che costringe il cuore a pompare il sangue a un ritmo estremamente elevato. “Hanno una probabilità 12 volte maggiore di compromettere la salute dei propri reni rispetto a un supervisore che si trova nel campo con loro ed è esposto alle stesse condizioni climatiche”, spiega Jason Glaser, fondatore della Ong La Isla impegnata nel supporto ai lavoratori della canna da zucchero in Nicaragua.

Quella dei tagliatori di canna da zucchero del Nicaragua è una delle storie ricostruite nel documentario “Too hot to work” (fino al 16 dicembre è disponibile anche con i sottotitoli in italiano), prodotto dal canale francese Arte e realizzato dal giornalista Mikaël Lefrançois: “L’inchiesta è nata da un report pubblicato nel 2019 dall’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) dal titolo ‘Lavorare su un Pianeta più caldo’. Si trattava del primo campanello d’allarme sull’impatto del cambiamento climatico, e in particolare dell’aumento delle temperature, sulla salute dei lavori e sulla produttività -spiega ad Altreconomia-. Il caldo estremo può uccidere le persone e far rallentare le economie: l’Ilo avverte che pochissime regioni saranno risparmiate, segno di quanto la crisi climatica sia un tema globale. Ma le zone tropicali soffriranno questi cambiamenti in maniera sproporzionata”.

Per realizzare il documentario il giornalista ha viaggiato in diversi Paesi del Nord e del Sud del mondo, esplorando l’impatto che i cambiamenti climatici stanno avendo già oggi sulla salute di milioni di lavoratori: dai tagliatori di canna da zucchero nei Paesi centro-americani ai corrieri statunitensi del colosso Ups, dai manovali nepalesi impiegati nella costruzione di grattacieli in Qatar, alle lavoratrici informali delle megalopoli indiane costrette a rallentare le proprie attività già poco remunerative a causa delle temperature sempre più elevate.

“Da quando abbiamo iniziato a lavorare a questo documentario sono passate tre estati. E in questo arco di tempo abbiamo osservato le conseguenze del cambiamento climatico anche nei Paesi europei, dove le ondate di calore sono diventate sempre più intense -spiega il giornalista-. All’inizio pensavamo che la nostra inchiesta avrebbe ‘toccato’ l’Europa solo in prospettiva: in realtà abbiamo potuto documentare che anche qui il cambiamento climatico sta avendo gravi conseguenze sulla salute delle persone. Ed è spaventoso”.

Lefrançois può farci qualche esempio?
ML Nel documentario citiamo alcuni dati: in Italia negli ultimi anni sono stati quattromila gli incidenti sul lavoro legati al caldo estremo e nel 2022 i decessi legati a questo fattore sono stati dieci. In Francia, nelle scorse settimane sono state registrate delle ondate di calore in concomitanza con il periodo della vendemmia. Ci sono stati sei morti nei campi: quattro nella regione dello Champagne e due nel Beaujolais. Le indagini sono ancora in corso ma sembra molto probabile che questi decessi siano collegati allo stress da calore. Le persone che svolgono uno sforzo fisico quando la temperatura supera i 30 gradi possono perdere la vita.

Quali sono i lavoratori che pagano il prezzo più alto di questa situazione?
ML Coloro che lavorano all’aperto o in contesti di sfruttamento stanno subendo già adesso le conseguenze più gravi: il cambiamento climatico e l’aumento delle temperature impattano maggiormente i lavoratori più vulnerabili: i braccianti impiegati a cottimo e i migranti che devono scegliere tra la propria paga e la salute. Ma se lavorano in condizioni così estreme, nel lungo termine finiscono con il danneggiare la propria salute e non possono più lavorare. Tutto questo non fa che amplificare le diseguaglianze già esistenti tra chi può proteggersi dal caldo estremo sul posto di lavoro e chi no.

Il documentario dedica particolare attenzione alle condizioni dei lavoratori provenienti da Paesi poveri, come il Nepal, impiegati nella costruzione di grattaceli in Qatar. Che cosa sta succedendo?
ML Diversi Paesi del Golfo, non solo in Qatar, fanno arrivare dall’estero uomini per brevi periodi di tempo (da uno a tre anni) per lavorare in condizioni climatiche estreme: alcuni muoiono e altri ritornano a casa con gravi malattie renali o altre patologie. Di conseguenza, Paesi come Nepal, Bangladesh e Pakistan devono farsi carico di questi costi sanitari che, come nel caso delle dialisi, sono estremamente elevati.  È quindi necessario prestare maggiore attenzione a queste dinamiche economiche della migrazione per lavoro che sono profondamente diseguali.

In contesti del genere è possibile tracciare una linea di demarcazione tra quando è troppo caldo per lavorare e quando invece è accettabile?
ML Proprio questa è la questione attorno a cui ruota il documentario: questa linea esiste? È possibile tracciarla? Dipende dalle persone, dall’intensità del lavoro e da diverse variabili. Il Qatar ha fissato questa soglia a un valore molto alto: 32,1 gradi Wbgt (il Wet bulb globe temperature è un indice che valuta il rischio connesso con lo stress termico dei lavoratori, ndr). Ma già a 28 gradi Wbgt fare uno sforzo fisico intenso è molto pericoloso. Da questo punto di vista il documentario mostra l’ipocrisia di alcuni programmi di prevenzione dello stress da calore istituiti da alcune società. Quando ero in Qatar una di queste ci ha mostrato il sistema che avevano implementato: bandiere di colore diverso dal verde al giallo fino al nero, che indica quando il lavoro deve essere interrotto. Quando viene esposta la bandiera rossa, il livello appena precedente, la temperatura va dai 38 ai 52 gradi e si raccomanda una pausa di 10 minuti ogni ora.

Si tratta di un problema che riguarda solo Paesi estremamente caldi come il Qatar?
ML
  No. Non dobbiamo considerare lo stress da calore solo come un rischio ambientale. È anche il prodotto di pratiche scorrette e di dinamiche di potere sbilanciate sul posto di lavoro. I lavoratori che non hanno la possibilità di cambiare impiego, né di adattare il proprio ritmo di lavoro, sono più esposti, nei Paesi caldi ovviamente, ma anche in quelli più temperati. Ad esempio, il sistema di retribuzione a cottimo, molto comune in agricoltura, costituisce un incentivo perverso che aumenta il rischio di stress da calore come è stato dimostrato da diversi studi. Inoltre, su scala globale, la produttività è diventata la pietra miliare del nostro modo di concepire il lavoro e di valutare la forza lavoro: credo che questa concezione resti cieca rispetto alle nuove criticità poste dal cambiamento climatico ed esponga i lavoratori manuali al rischio di uno sfruttamento sistemico.

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