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Crisi climatica / Approfondimento

La Conferenza sul clima di Dubai rischia di essere la “Cop del petrolio”

Una manifestazione di protesta organizzata lo scorso luglio da Greenpeace davanti alla sede di Shell © © Chris J Ratcliffe / Greenpeace

I prossimi negoziati si apriranno il 30 novembre negli Emirati Arabi Uniti. Una campagna chiede alle Nazioni Unite di riformare i criteri per la partecipazione, che oggi permettono ai rappresentanti dell’industria fossile di influenzare i lavori senza essere identificabili

Tratto da Altreconomia 263 — Ottobre 2023

A poco meno di due mesi dall’inizio della Conferenza sul clima delle Nazioni Unite (Cop) crescono le preoccupazioni riguardo al ruolo che avranno i rappresentanti delle imprese fossili nel corso dei negoziati. La Cop28 si terrà dal 30 novembre al 12 dicembre 2023 a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti, uno tra i maggiori produttori al mondo di petrolio. Le critiche sono iniziate fin dalla designazione del piccolo Stato come sede della conferenza e continuate con la decisione di nominare alla presidenza della Cop28 Sultan Ahmed Al Jaber, dirigente dell’Abu Dhabi national oil co (Adnoc), la compagnia petrolifera nazionale.

Allo Stato ospite è affidato il delicato compito di gestire le negoziazioni sugli accordi finali, che richiedono l’unanimità. In passato proprio i delegati delle nazioni ricche di petrolio, gas e carbone avevano spinto per indebolire il linguaggio che stabiliva l’eliminazione dei combustibili fossili come fonte di energia. Per molti osservatori internazionali -attivisti, analisti e politici- gli Emirati e Al Jaber si trovano in una posizione di conflitto di interessi che potrebbe portare a un accordo debole, non in grado di garantire il rispetto degli Accordi di Parigi e il limite di 1,5 gradi di aumento della temperatura globale. Temono, in altre parole, che la Cop28 diventi una “Cop del petrolio”. Questo anche a causa delle dichiarazioni di Al Jaber secondo cui l’industria fossile dovrebbe avere un ruolo rilevante al summit.

Da anni le organizzazioni della società civile che partecipano alla conferenza denunciano come i rappresentanti di questo comparto stiano guadagnando sempre più spazio. Già in occasione della Cop27 Global Witness, Corporate accountability e Corporate Europe Observatory avevano calcolato un numero record di 636 lobbisti legati al settore fossile ammessi alla conferenza. Un numero superiore a quello di qualsiasi delegazione nazionale, a eccezione di quella degli Emirati Arabi Uniti (1.070 delegati). In totale i “rappresentanti” degli interessi fossili registrati erano più numerosi dei rappresentanti dei dieci Paesi più colpiti dagli effetti del cambiamento climatico che sono Porto Rico, Myanmar, Haiti, Filippine, Mozambico, Bahamas, Bangladesh, Pakistan, Thailandia e Nepal.

“Molto spesso, soprattutto negli Stati più poveri, ma non solo -perché anche in Europa ci sono stati dei casi abbastanza eclatanti- esponenti di grandi compagnie del settore privato vengono inclusi nelle delegazioni nazionali e governative, in qualità di esperti”, spiega Chiara Martinelli, direttrice di Climate action network Europe (Can), una Ong che da anni segue i negoziati Onu sul clima come osservatore.

Sultan Ahmed Al Jaber, dirigente della compagnia petrolifera degli Emirati Arabi è stato nominato presidente della Cop28 © flickr.com/photos/arctic_circle

“A volte, purtroppo, è anche un modo per coprire la mancanza di risorse tecniche ed economiche in quei Paesi. Per un governo è molto più facile avere come esperti rappresentanti del settore privato che hanno i propri mezzi per partecipare e gestire la presenza per due settimane dall’altra parte del mondo. Anche perché questi negoziati sono estremamente impegnativi e richiedono una significativa competenza tecnica”, continua Martinelli.

Una più recente analisi, pubblicata a giugno 2023 da Corporate Europe Observatory and Corporate accountability, ha esaminato quanto sia cresciuta la presenza delle imprese fossili dalla firma degli Accordi di Parigi (Cop21) a oggi. Dal 2016 le cinque più grandi società petrolifere e del gas -Shell, Bp, ExxonMobil, Chevron e TotalEnergies- hanno portato complessivamente 403 lobbisti. Eni e la norvegese Equinor nello stesso arco di tempo ne hanno portati 69 ciascuna.

Sono 450 le Ong di tutto mondo che hanno lanciato la campagna internazionale “Kick big polluters out” per chiedere una riforma del sistema di partecipazione alle Conferenze delle Nazioni Unite sul clima

Nell’attuale meccanismo di partecipazione non è possibile per il Segretariato della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Unfccc) regolare l’accesso dei partecipanti in base a mandati e scopi delle loro attività. Gli accrediti vengono forniti sulla base della tipologia di partecipante: possono essere rappresentanti delle Parti (i Paesi), delle agenzie delle Nazioni Unite, delle organizzazioni intergovernative, delle Ong ammesse, oltre che giornalisti, personale tecnico e di servizio. Non è possibile quindi limitare il numero di accrediti dell’industria fossile, soprattutto quando i suoi lobbisti fanno parte delle delegazioni nazionali, di Ong o di organizzazioni intergovernative.

I rappresentanti della società civile denunciano come, sfruttando questo meccanismo, le compagnie dell’oil&gas siano ovunque. Ad esempio, partecipano in gran numero come “Soggetti non governativi portatori di interesse” (non-Party stakeholders) attraverso l’accreditamento all’interno di Ong del settore commerciale e industriale come l’International emissions trading association (Ieta), creata tra gli altri da Bp e Rio Tinto per seguire i negoziati sul mercato del carbonio: in meno di dieci anni ha portato alle Cop più di 2.300 lobbisti. Mentre il World business council for sustainable development (Wbcsd) si è “fermato” a 1.300. Ma i lobbisti del fossile sono stati anche all’interno di Ong e organizzazioni intergovernative, ad esempio l’Unione internazionale per la conservazione della natura (promossa da Shell, Bp, Chevron, Exxon, TotalEnergies, Eni ed Equinor), la Fundación Despacio (Shell), la Banca Mondiale (Shell e Chevron).

Chiara Martinelli, direttrice della Ong Can Europe © ciel.org

Nell’ambito dei negoziati, cinque grandi raggruppamenti di soggetti non governativi stanno portando avanti un dialogo con il Segretariato affinché i governi mondiali e l’Unfccc approvino nuovi meccanismi di partecipazione “che proteggano le politiche climatiche dall’influenza indebita dell’industria dei combustibili fossili e di altre industrie ad alta intensità di emissioni”. Anche fuori dalle Nazioni Unite le pressioni aumentano. Una campagna internazionale cui partecipano più di 450 Ong di tutto il mondo spinge per una riforma del sistema che “butti fuori dai negoziati i grandi inquinatori” (Kick big pollutes out). A maggio, in vista della Cop28, una lettera firmata da 130 membri del Congresso degli Stati Uniti e del Parlamento europeo ha chiesto al Segretario generale delle Nazioni Unite, alla presidente della Commissione europea e al presidente degli Stati Uniti di impegnarsi a livello diplomatico per “limitare l’influenza delle compagnie fossili” e per destituire l’attuale presidente Al Jaber dal suo incarico.

Un primo obiettivo è stato ottenuto lo scorso giugno, in occasione della pre-Cop di Bonn, in Germania, un negoziato preliminare alle discussioni della Cop negli Emirati Arabi. L’Unfccc ha stabilito che, in fase di registrazione ai negoziati, tutti i partecipanti devono dichiarare esplicitamente la propria affiliazione.

“La situazione si fa sempre più complessa e siamo in un momento in cui, per rispettare l’Accordo di Parigi, l’abbandono dei combustibili fossili è centrale” – Chiara Martinelli

Un tentativo di rendere trasparenti i conflitti di interesse, ma che non diminuisce la possibilità di influenza che i lobbisti del fossile possono avere sui negoziati. E “per far progredire in modo più ampio (gli sforzi per) la trasparenza e la responsabilità -scrivono le associazioni di Kick big pollutes out- occorre anche chiarire chi paga per la partecipazione di una persona e se questa abbia altri legami con l’industria dei combustibili fossili”. Il rapporto di sintesi sullo stato di attuazione dell’Accordo di Parigi, pubblicato l’8 settembre dalle Nazioni Unite, ha concluso che in tutti i settori “c’è ancora molto da fare” e la finestra per raggiungere gli obiettivi climatici “si sta rapidamente chiudendo”.

Molti sperano che il documento possa dare la spinta decisiva a impegni maggiori. “C’è stato un forte rallentamento rispetto alla possibilità di inserire il linguaggio che si riferisce esplicitamente al phase out (l’uscita, ndr) dai combustibili fossili all’interno dei testi dei negoziati. La situazione si fa sempre più complessa -conclude Martinelli- e siamo in un momento in cui, per rispettare l’accordo di Parigi, l’abbandono dei combustibili fossili è centrale”.

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