Economia / Opinioni
Troppi risparmi bloccati sui conti correnti di pochi
La tenuta sociale del Paese passa dalla redistribuzione delle ricchezze ma manca la volontà politica. Anche nella lotta all’evasione fiscale. La rubrica di Alessandro Volpi
Nel giugno 2021 sono uscite sui giornali italiani due interviste che hanno fornito alcuni numeri eloquenti. La prima è stata rilasciata a Corriere della Sera da Carlo Messina, amministratore delegato di Intesa Sanpaolo: “Dal 2012 -ha dichiarato Messina- l’ammontare dei depositi delle imprese presso le banche è aumentato di 225 miliardi di euro, di cui 90 miliardi solo nell’ultimo anno durante l’emergenza sanitaria. Nel complesso le risorse parcheggiate dalle aziende nei conti correnti bancari risultano intorno ai 400 miliardi. Ugualmente le famiglie hanno risparmi imponenti: 1.243 miliardi di euro, di cui quasi un centinaio messi da parte nell’ultimo anno. Quindi, tra imprese e famiglie, nell’anno dell’emergenza sono stati accantonati 180 miliardi”.
In sintesi, nonostante la pandemia, anzi proprio durante la pandemia, si è ulteriormente accresciuta in Italia l’enorme liquidità accantonata nei conti correnti di una parte limitata della popolazione e a disposizione di un buon numero di aziende. A fronte di ciò, nel 2020, i poveri assoluti sono diventati 5,6 milioni, (il 9,4% della popolazione) in forte crescita rispetto al 2019, quando erano il 7,7%. È sempre più chiaro, dunque, che la tenuta sociale, e civile, del Paese dipende dalla redistribuzione dei redditi e della ricchezza; un processo necessario e di cui, come dimostrano i numeri esposti da Messina, esistono tutte le condizioni. Inoltre, sarebbe decisivo trovare forme di impiego convincenti per la ricordata, accresciuta capacità di risparmio delle famiglie italiane che registra un rendimento molto vicino allo zero.
Se si manifestasse infatti una capacità di mettere a reddito tale risparmio con una remunerazione anche solo di un punto percentuale, le famiglie italiane avrebbero guadagnato, nel 2020, circa 30 miliardi di euro, poco meno del 2% del Pil italiano: un effetto paragonabile a quello del Recovery plan. Concepire titoli del debito pubblico adatti per questo tipo di risparmiatori, insieme a una cultura altrettanto attenta al legame fra risparmio e debito pubblico sarebbero due condizioni per migliorare la ripresa e, al contempo pubblico, per dare fiato agli investimenti pubblici, inserendoli nella sopra citata esigenza di redistribuzione dei redditi.
La seconda intervista rilasciata al Corriere della Sera dal direttore dell’Agenzia delle entrate, Ernesto Maria Ruffini, lascia l’amaro in bocca. Dopo una serie di risposte molto ecumeniche, e un po’ generiche, Ruffini, in chiusura, ha espresso alcune valutazioni assai nette. L’evasione fiscale in Italia è ancora troppo alta ma l’Agenzia delle entrate dispone di tutti i dati per combatterla, ciò che manca, a giudizio del direttore, è la volontà politica.
180 miliardi di euro accantonati da imprese e famiglie durante l’emergenza sanitaria da Covid-19. A fronte di questo, nel 2020, i poveri assoluti sono diventati 5,6 milioni, aumentando dell’1,7% rispetto al 2019.
In altre parole, servirebbero una riforma fiscale, che “autorizzasse” una serie di controlli, e un potenziamento dell’Amministrazione pubblica, perché con queste due condizioni l’enorme messe di informazioni rese possibili dalla digitalizzazione e da varie banche dati fornirebbero risultati assai convincenti. In effetti, se si analizza anche solo a grandi linee la struttura dell’evasione, le note di Ruffini paiono molto credibili. Su circa 100-110 miliardi di evasione annua, quasi 36 provengono dall’Iva, circa 33 dall’Iperf da lavoro autonomo e dalle imprese, altri 15-16 da Ires e Irap, poco più di 5 miliardi dall’Imu, 4,5 dall’Irpef da lavoro dipendente e quasi 9 dal mancato versamento di contributi a carico dei datori di lavoro. È evidente che gran parte di queste mancate entrate sono facilmente tracciabili e, dunque, il tema, come sostiene Ruffini, è legato alla volontà “politica” di inseguirle.
Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa.
Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento
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