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Esteri / Reportage

Tra crisi economica e i diritti violati aumentano le partenze dal Libano

Bari’a Al-Jundi e il figlio Mustafa osservano il mare dalla terrazza della loro casa a Tripoli, nel Nord del Libano. Dal 2020 il Paese vive una grave crisi economica © Sofia Turati

Dal 2020 almeno 10mila persone si sono imbarcate verso l’Italia, sia cittadini libanesi sia profughi siriani a rischio deportazione. Il controllo delle frontiere viene finanziato anche dall’Unione europea. Non sono mancati tragici incidenti

Tratto da Altreconomia 263 — Ottobre 2023

“Me ne voglio andare da qui”. Sono le prime parole che Bari’a Al-Jundi pronuncia sulla terrazza della sua casa di Tripoli, nel Nord del Libano. L’abitazione si affaccia sul mare e sulle strade del porto dove Bari’a giocava da bambina. Oggi, però, questo panorama le provoca solo dolore. Le sue figlie, Salam e Ghania, hanno perso la vita in quel mare, a pochi chilometri di distanza dalla costa. È successo il 23 aprile 2022 quando la madre, le due ragazze, i figli Mustafa e Ibrahim e il fidanzato di Salam si sono imbarcati per il viaggio che avrebbe potuto cambiare le loro vite.

“Mio fratello vive in Italia, avremmo potuto presentare domanda di asilo e stare da lui”, racconta la donna. Suo figlio Mustafa, trentunenne disoccupato, è seduto accanto a lei. Il giorno della partenza ha esitato fino all’ultimo: “Ho deciso solo quando ho visto che tutti erano lì di fronte alla nave, pronti a salpare. Volevamo semplicemente una vita dignitosa, un lavoro pagato decentemente, ricevere cure mediche”, ricorda.

Bari’a ha cittadinanza libanese, ma non ha potuto trasmetterla ai suoi figli, sebbene siano nati in Libano, dal momento che il padre è di origine siriana: nel Paese, infatti, la cittadinanza si trasmette solo per via paterna. I bambini nati da queste unioni, non godono quindi degli stessi diritti dei connazionali e sono penalizzati nell’accesso all’educazione, alla sanità e al mercato del lavoro.

Le partenze via mare dal Libano si sono intensificate dal 2020, con l’aggravarsi della crisi economica e la svalutazione della lira libanese. Secondo uno studio della Friedrich Naumann foundation pubblicato a giugno 2023, tra il primo gennaio e il 30 maggio almeno 10mila persone hanno lasciato il Paese a bordo di 75 imbarcazioni.

Nel 2020-2021 la destinazione principale era Cipro, ma la politica di respingimenti e il deterioramento delle condizioni dell’accoglienza nel Paese l’hanno reso una meta impraticabile (lo abbiamo raccontato su Ae 262). Lo stesso vale per la Grecia, dove si rischia di rimanere bloccati per molti anni nei campi profughi. Così è cresciuta l’importanza della rotta verso l’Italia, talvolta con scalo in Turchia.

“Si tratta di un viaggio più lungo e difficile da organizzare: le reti criminali transnazionali ne hanno subito approfittato. È anche più costoso: in media si arriva a settemila euro a testa”, spiega Mark Micallef della Global initiative against transnational organised crime, organizzazione che promuove la cooperazione internazionale per affrontare minacce transnazionali come il traffico di droga e la tratta di esseri umani.

Le foto di Salam e Ghania Al-Jundi, che hanno perso la vita nel naufragio dell’imbarcazione che avrebbe dovuto condurle in Italia assieme alla loro famiglia © Sofia Turati

“In Turchia operano gruppi di trafficanti altamente organizzati, mentre la peculiarità del Libano è che spesso si tratta di viaggi auto-organizzati da persone che si improvvisano”, aggiunge Erminia Rizzi, operatrice legale dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi). Così è stato per la famiglia Al-Jundi, partita gratuitamente grazie a un contatto del fratello Ibrahim.

A lasciare il Paese sono sia i suoi cittadini sia i profughi palestinesi, ma soprattutto quelli siriani. In Libano infatti vivono circa 1,5 milioni di persone in fuga dal regime di Damasco, di cui solo una minima parte è ufficialmente registrata e beneficia di aiuti. Secondo i dati dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), nove su dieci vivono in condizioni di estrema povertà.

Inoltre nel 2023 sono aumentate significativamente le deportazioni verso la Siria, così come gli episodi di intolleranza e razzismo, fomentati dagli slogan di diversi esponenti politici. “La narrazione è che ormai il conflitto sia risolto e che i rifugiati devono tornare nel loro Paese. Sono diventati il capro espiatorio della crisi economica”, spiega Paola Fracella di Operazione Colomba, missione umanitaria italiana presente nei campi profughi nel Nord del Libano dal 2013. Chi viene riportato in Siria rischia di essere vittima di gravi violazioni dei diritti umani, arruolamento forzato, torture e persecuzioni. “Con la normalizzazione del regime di Assad sulla scena politica internazionale per molti il ritorno in Siria è uscito dall’orizzonte delle possibilità -spiega Fracella-. Ci dicono: ormai vale tutto”. Anche il pericoloso viaggio via mare.

Secondo gli esperti del progetto Medea di Asgi (attivi nella tutela dei diritti dei migranti alle frontiere interne dell’Ue e lungo la rotta balcanica) da gennaio a giugno 2023 i siriani arrivati in Italia sono stati 2.336. “Allo sbarco viene registrata la nazionalità, ma non tutto il percorso migratorio. Molti sono partiti dal Libano, compresi coloro che hanno perso la vita nella strage di Cutro (KR) del 26 febbraio scorso -prosegue Rizzi-. Questa rotta riceve meno attenzioni rispetto a quella del Mediterraneo centrale ed è meno battuta dalle navi di soccorso”.

Quaranta persone hanno perso la vita o risultano ancora disperse a seguito del naufragio del 23 aprile 2022 davanti alle coste libanesi. La nave carica di migranti, a bordo del quale viaggiava anche la famiglia Al-Jundi, sarebbe affondata dopo aver urtato contro un mezzo della marina militare libanese. Tra le vittime, anche Salam e Ghania Al-Jundi

Il viaggio della famiglia Al-Jundi, però, è terminato molto lontano dalle coste italiane. A circa un’ora dalla partenza, quando era calata la notte, l’imbarcazione con circa 80 persone a bordo è stata intercettata dalla marina libanese. “Ci puntavano addosso torce e pistole. Ci hanno detto di fermarci minacciando di ucciderci in caso contrario. Non pensavamo che sarebbe accaduto davvero”, ricorda Mustafa.

L’imbarcazione stracolma si scontra con una nave della marina e inizia ad affondare rapidamente. Mustafa afferra la madre, che si trova accanto a lui sul ponte, e la stringe a sé cercando di tenerla a galla. “Era buio. La gente annaspava, bambini e adulti urlavano. Non ho più visto le mie sorelle -ricorda- sapevo che erano nella parte inferiore dell’imbarcazione che stava andando a fondo. I mezzi militari erano intorno a noi, ma non intervenivano”. Il giovane e la madre rimango un’ora e mezza tra le onde, in attesa dei soccorsi. Poi vengono tirati a bordo con delle corde. Insieme a Salam e Ghania, quella notte hanno perso la vita 31 persone. Mustafa e gli altri superstiti accusano le navi della marina libanese di aver provocato lo scontro. Quasi un anno e mezzo dopo, le indagini sulle dinamiche del naufragio sono ancora ferme: “Non c’è alcuna volontà di dare giustizia alle famiglie”, denuncia l’avvocato delle vittime, Mohammad Sablouh.

“Alle frontiere del Libano, come in Libia o in Tunisia, avvengono molte violazioni, difficili da documentare. Il controllo esterno delle frontiere è diventato un business, in cui i profughi sono merce di scambio da cui trarre profitto”, commenta Anna Brambilla, avvocata specializzata in diritto dell’immigrazione e dell’asilo e socia di Asgi.

“Non ho più visto le mie sorelle, sapevo che erano nella parte inferiore dell’imbarcazione che stava andando a fondo” – Mustafa Al-Jundi

“L’esercito libanese è un patchwork di donazioni, da Regno Unito, Stati Uniti, Canada e Unione europea. Manca però un sistema di controllo per verificare che i fondi non contribuiscano alle violazioni dei diritti umani”, ha dichiarato Wadih Al-Asmar, presidente di EuroMed Rights all’incontro “Morti in terra e in mare: nessuna alternativa per i rifugiati siriani in Libano” in occasione della settima “Conferenza di Bruxelles sul futuro della Siria e della regione” organizzata dalle istituzioni europee a giugno 2023.

L’Unione europea ha un un accordo sulla gestione delle frontiere con il Libano che risale al 2012 ed è stato rinnovato nel 2020. Per “prevenire e individuare l’immigrazione irregolare” è previsto un budget di sette milioni di euro. Anche l’Italia è presente nel Paese con una missione militare volta all’implementazione di programmi di formazione e addestramento delle Forze di sicurezza libanesi. La mancanza di trasparenza e l’impunità dell’esercito libanese sono segnalate dal report 2023 dal think tank di consulenza strategica alle autorità statunitensi sul Medio Oriente Washington Institute for Near East Policy. “C’è una grande collaborazione tra le forze di polizia e quella che io chiamo ‘mafia delle migrazioni’ -spiega l’avvocato Sablouh-. Le imbarcazioni devono pagare una quota all’esercito per partire indisturbate. Più di una fonte mi ha riferito che la nave su cui viaggiava la famiglia Al-Jundi non aveva pagato ed è stata punita”.

Dopo l’incidente Mustafa e la madre sono tornati a casa a notte inoltrata: “Abbiamo aspettato invano le mie sorelle”. Poi, quando la speranza è tramontata, hanno atteso notizie sui loro corpi, ma non sono arrivate nemmeno quelle. Come la maggioranza delle vittime, le giovani risultano ancora disperse. Nell’agosto 2022, la Ong Ausrelief ha effettuato delle missioni subacquee per riportare in superficie il relitto, ma senza successo. “In Libano non è possibile fare giustizia, stiamo lavorando per portare questo caso all’attenzione internazionale. Le famiglie delle vittime mi chiamano ogni giorno, alcuni avevano speso quel poco che avevano per il viaggio, ora non hanno più nulla”, conclude l’avvocato Sablouh.

Bari’a non parla molto. Prepara il caffè, fuma e lascia il difficile racconto al figlio. Al termine dell’intervista mostra la stanza di Salam e Ghania: è rimasta uguale a com’era quella sera di più un anno fa, quando insieme ai suoi figli ha preparato le borse ed emozionata ha salutato la terrazza e il porto, sperando di non tornare mai più.

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