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Economia / Reportage

La svalutazione della lira mette in ginocchio l’economia libanese

Un cambiavalute di Beirut mostra una mazzetta di lire libanesi © Agnese Stracquadanio

Per oltre vent’anni la valuta locale è stata agganciata in maniera fittizia al dollaro con un tasso fisso. Questo ha generato un deficit enorme e la situazione si è aggravata con la guerra in Siria. Il reportage da Beirut

Tratto da Altreconomia 260 — Giugno 2023

Ogni mattina arriva un corriere, ferma il motorino sul cavalletto ed estrae da sotto la sella diverse mazzette da 100mila lire libanesi (Lbp). Servono a uno dei tanti exchange point di Beirut per iniziare la giornata. “In Libano la situazione è in evoluzione”, spiega Antoine, terza generazione di cambiavalute, riferendosi al tasso tra la lira e il dollaro statunitense al mercato nero. Per chi vive nel Paese è prassi quotidiana consultare una delle tante app per avere la quotazione più aggiornata: a marzo 2023 ha superato le 100mila lire per un dollaro.

Per oltre vent’anni, fino al 2019, la lira libanese è rimasta legata al dollaro con cambio fisso a 1.500. Sulla carta, formalmente, è stato così fino a febbraio di quest’anno quando il governo ha deciso di alzare il tasso ufficiale a 15mila. Un valore ancora ben lontano da quello reale. Per conoscere il reale valore della moneta locale bisogna guardare al mercato nero o “parallelo” (a cui però tutti fanno ricorso alla luce del sole) nato quando il governo ha rifiutato di riconoscere la rottura dell’aggancio al dollaro e il cambio ha iniziato a salire nell’estate 2019.

La svalutazione della lira ha raggiunto il 98% dall’inizio della crisi economica che però affonda le sue radici molto prima del 2019. Nel corso degli anni Novanta l’ancoraggio tra le valute era stato deciso per incentivare la ripresa economica dopo la fine della guerra civile, per assicurare stabilità al Paese e attrarre investitori. Una soluzione che ha retto per qualche tempo, nonostante confessionalismo e assassinii politici, oltre ai turbolenti sviluppi della regione. Come la guerra in Siria che ha portato in un Paese di cinque milioni di abitanti circa 1,5 milioni di sfollati a cui non viene riconosciuto lo status di rifugiato. E che si sono aggiunti ai palestinesi arrivati nel Paese a partire dal 1948, oggi circa 500mila.

“L’aggancio tra le due valute doveva essere temporaneo, ma i membri della classe dirigente libanese ne sono diventati dipendenti -spiega Dan Azzi, ex dirigente di banca ed esperto di mercati finanziari mentre fuma una shisha in un bar di Hamra street-. Il valore però non è mai stato di 1.500 lire per un dollaro, il tasso fisso è stato mantenuto in maniera artificiale”. La differenza veniva coperta dalla Banca centrale, la Banque du Liban. Secondo Azzi, almeno dal 2011 il Libano vive al di sopra delle proprie possibilità, accumulando deficit.

Allo sguardo di chi non è mai stato nel Paese prima del 2019 la crisi potrebbe anche sfuggire: eventi culturali e vita notturna non mancano e molti ristoranti richiedono la prenotazione. Se non fosse per interi quartieri che a fatica si illuminano la sera, spesso grazie a progetti di riqualificazione che cercano di sopperire alla mancanza di elettricità, e per il costante rumore di generatori di cui spesso ci si accorge solo quando si spengono, come un motore che si ingolfa di colpo.

“All’inizio il denaro circolava”, riflette Rim Fayad, consulente finanziaria e content creator della pagina Instagram @ddoesbusiness. Oltre alle rimesse inviate dalla diaspora e alle risorse generate dai turisti provenienti dagli Stati del Golfo persico, la crisi finanziaria del 2008 aveva portato un ulteriore flusso di capitale in Libano. “Tra i 20 e i 25 miliardi di dollari”, stima Azzi, per via di chi -temendo il collasso delle principali banche occidentali- aveva guardato a quelle libanesi per mettere al sicuro i propri risparmi. “Poi il punto di non ritorno: la guerra in Siria”, continua Fayad. Quando nel 2013 i Paesi del Golfo hanno imposto restrizioni sui viaggi in Libano, gli arrivi di turisti e di tutto il denaro che questi portavano con sé si sono interrotti.

Per far fronte al costante bisogno di valuta forte (dollari) e continuare a mantenere un Paese che importa la quasi totalità di quello che consuma, nel 2016 la Banque du Liban ha fatto ricorso a strumenti di ingegneria finanziaria, implementando il cosiddetto financial engineering scheme. In quegli anni aprire un conto in una banca libanese poteva fruttare fino al 31% di interessi: una quota esorbitante per attrarre correntisti. “Questo ha permesso di raccogliere capitale poi impiegato sottobanco per mantenere l’ancoraggio al dollaro e alimentare i consumi, mentre passività e deficit crescevano esponenzialmente”, spiega Azzi.

Prima dell’inizio della Thawra, la rivoluzione di ottobre 2019, le banche libanesi avevano già messo un tetto ai prelievi e ai trasferimenti all’estero, privando così i correntisti dei loro risparmi. Da allora il Libano conta diversi tassi di cambio: “È come avere più valute contemporaneamente”, spiega la consulente finanziaria Fayad. Chi lavora nel settore inizia la giornata con qualche telefonata ai colleghi o scorrendo i gruppi WhatsApp e Telegram sulla compravendita di dollari. Nell’estate 2019 le prime oscillazioni del tasso di cambio furono il segno che si era inceppato “il più grande schema Ponzi regolamentato della storia” come lo definisce Azzi. Quando ha ceduto, il governo ha messo in atto una serie di misure per impedire il cambio a un tasso diverso da quello ufficiale. “All’inizio era come comprare droga”, ricorda il cambiavalute Antoine. Tra il 2019 e il 2020 per acquistare dollari o lire a un tasso diverso da quello imposto dal governo l’operatore di fiducia arrivava a casa del cliente con alcune mazzette di contanti nascoste in macchina.

Oggi una delle chat più utilizzate dai trader conta oltre 21mila membri. È qui che il tasso del giorno viene calcolato. Molti, come Antoine, si sono sentiti più sicuri a entrare in una chat con così tanti membri. Quando cambiare al tasso reale -ma non ufficiale- era considerato un reato, anche gli amministratori di queste borse virtuali rischiavano l’arresto. “Ma era tutta scena”, concordano tutti, convinti che non ci sia mai stata l’intenzione, né la possibilità, di fermare lo sviluppo del cosiddetto mercato nero. “Oggi il Libano è uno stato non profit”, scherza Azzi, a sottolineare quanto il Paese dipenda da rimesse e fondi internazionali che arrivano attraverso le Ong.

A questa situazione già precaria si sono poi aggiunti la pandemia da Covid-19 e l’esplosione nel porto di Beirut dell’agosto 2020, di cui la città porta ancora i segni. L’impossibilità di prelevare i risparmi ha portato ad assalti armati alle banche da parte di chi aveva necessità di ritirare il proprio denaro. “Oltre a dare avvio alla compravendita di conti correnti”, ricorda Azzi. Senza una stima ufficiale delle sue dimensioni, oggi il mercato nero rappresenta la normalità, e non è raro trovare in fila agli sportelli dipendenti pubblici e militari. Gli stessi prima impiegati per fermarne l’espansione e che ora si incontrano alla guida della propria auto mentre arrotondano come tassisti Uber. Il settore pubblico, retribuito in lire, paga infatti il prezzo più alto della crisi mentre l’economia si “dollarizza” progressivamente. Secondo gli intervistati, seppur non ufficialmente, anche la Banque du Liban reperirebbe dollari sul mercato parallelo, stampando lira per pagare.

L’inflazione è salita al 171% nel 2022 e il Paese è tornato a un’economia basata esclusivamente sul contante: il tasso di cambio applicato sulle transazioni bancarie, inferiore al valore reale della valuta sul dollaro, comporterebbe infatti una perdita. In assenza di interventi il cambio è destinato a salire, ma alcune novità potrebbero essere all’orizzonte. Dopo trent’anni alla guida della banca centrale, il governatore Riad Salameh terminerà il suo mandato a luglio. Considerato la causa dell’implosione del settore bancario, Salameh è accusato di corruzione e appropriazione indebita in Libano e all’estero per il presunto uso improprio di denaro per accrescere il proprio patrimonio. Nell’ambito delle indagini sul suo patrimonio in Europa, il 16 maggio un tribunale francese ha emesso un mandato d’arresto internazionale nei suoi confronti, subito seguito da uno dell’Interpol. Tuttavia, non è chiaro come la magistratura libanese risponderà alla richiesta e se il governatore della Banque du Liban sarà costretto alle dimissioni prima della fine del mandato.

L’impossibilità di prelevare i risparmi ha portato anche ad assalti armati alle banche da parte di chi aveva necessità di ritirare il proprio denaro

Mentre le banche distribuiscono le perdite e i depositi si consumano in fretta, mettere mano alle riserve auree potrebbe essere allettante per la Banque du Liban. “In questo modo gli anni passano e la gente si adatta o emigra: il Paese ha bisogno di importare meno mentre riceve più rimesse, consentendo così a questo cattivo sistema di mantenersi in piedi”, ipotizza Azzi. Un secondo scenario prevede il coinvolgimento del Fondo monetario internazionale. “Non potrebbe recuperare i 72 miliardi di dollari di perdite già accumulati, ma potrebbe dare fiducia e sbloccare altri fondi”, dice Fayad. Con tutti i rischi dell’affidarsi nuovamente a un creditore, per molti l’opzione rappresenta l’unica via per controllare i controllori o riformare la classe dirigente, la stessa dal 1990. “Più di tutto la speranza è che ci sia gas nel nostro mare”, continua Fayad riferendosi all’accordo di demarcazione marittima raggiunto con Israele. A danno di soluzioni più a lungo termine e ancora una volta in controtendenza rispetto a tempi che intimano una riduzione dell’uso di combustibili fossili, il Libano punta a sopravvivere cercando aria nel gas per dare respiro a un’economia che produttiva non è mai stata.

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