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“The Jungle”, documentario e teatro sociale per raccontare la comunità migrante dell’Isonzo
Diretta dal regista Cristian Natoli, l’opera parla di una rappresentazione teatrale che ha coinvolto le persone in transito riunite in un accampamento spontaneo lungo il fiume che attraversa Gorizia. Una scena per rendersi visibili e offrire nuovi punti di vista
“Uno spettacolo può creare nella mente delle persone uno spazio per un pensiero diverso”. Il documentario “The Jungle”, prodotto dalla Tesla Productions e 4FILM e diretto dal regista goriziano Cristian Natoli, punta i riflettori sull’importanza del teatro come luogo di incontro tra diverse sensibilità e culture. A parlare è una delle protagoniste, Elisa Menon; attrice, drammaturga e regista di teatro sociale, ha fondato la compagnia Fierascena, progetto di ricerca nel campo dell’evoluzione personale e delle comunità attraverso le rappresentazioni sceniche. La pellicola, approdata lo scorso anno al festival di Varsavia, racconta la storia di uno spettacolo speciale che ha visto il coinvolgimento di alcune tra le persone migranti che vivono nella “Jungle”, un accampamento spontaneo sorto sulle sponde dell’Isonzo a Gorizia.
“L’idea è nata nel 2015 -racconta Natoli-, quando sono andato a portare delle coperte durante un’esondazione del fiume. Ho conosciuto le persone che si trovavano là e ho iniziato a passare del tempo con loro”. Pian piano è cresciuta la voglia di realizzare un progetto che mostrasse la realtà di un posto unico, un luogo sospeso tra due culture. “Quello che mi interessava -continua il regista- era trasmettere un’immagine diversa da quella che spesso viene data dai giornali e dalla televisione. È vero che i migranti hanno fatto dei viaggi terribili, ma la ‘Jungle’ non è un posto dove c’è solo sofferenza e dolore: è anche uno spazio di aggregazione, un luogo dove vanno a cucinare, a mangiare, a pregare e ad ascoltare musica”.
Solitamente le persone non dormono all’addiaccio nel bosco: la maggior parte di loro la notte trova riparo in dormitori, che però chiudono durante la giornata. Una volta ad accamparsi lungo l’Isonzo erano più di un centinaio; ora sono di meno, divisi in piccoli gruppi da 10 o 15 persone. “Il loro è un bisogno di socialità, di vivere una quotidianità simile a quella dei loro Paesi d’origine -dice Natoli-. Hanno anche la necessità di mostrarsi, di essere visti per quello che sono e non per quello che i media dicono di loro”.
E che cosa c’è di meglio del teatro per rendersi visibili? Per questo motivo il regista, anche a seguito dell’incontro con Hassan Zeidi, mediatore culturale di 26 anni originario del Pakistan -diventato poi uno dei protagonisti del film-, ha deciso di coinvolgere Elisa Menon. “L’abbiamo portata nella ‘Jungle’, le abbiamo fatto conoscere le persone accampate -spiega Natoli-. Era libera di accettare o meno di far parte del progetto”. L’attrice ha deciso di dire di sì alla proposta; così è cominciato il percorso che ha portato, nell’estate del 2019, alla creazione e alla rappresentazione di uno spettacolo proprio sulle sponde dell’Isonzo. “All’inizio avevamo deciso di utilizzare un teatro in città per rendere visibili ai goriziani persone che altrimenti non lo erano -dice Menon-. Poi la situazione si è ribaltata: perché non portare i cittadini nella ‘Jungle’, luogo dipinto con toni foschi nei media, che per molti migranti invece rappresentava un posto sicuro, una sorta di casa?”.
E così anche gli spettatori si sono dovuti mettere in gioco, superando le proprie paure. “Ci sono due forze in questo sistema, due punti di vista -afferma la drammaturga-. C’è chi deve andarsene dalla propria casa e cercare rifugio in un altro Paese perché si trova in una situazione difficile e chi è spaventato perché vede arrivare delle persone nuove nella propria città. Sono due bisogni che entrano in contrasto tra loro e possono creare un conflitto. Scopo del teatro è togliere potere a questo conflitto”.
Non c’è un bianco e un nero: è necessario riconoscere la dignità di ogni sentito per permettere alle diversità di entrare in contatto tra loro e di essere accompagnate verso un pensiero nuovo. “Parliamo di esseri umani, con le loro grandezze e le loro fragilità -commenta Natoli-, che vanno fatti incontrare: questo lavoro, se non è svolto dalla politica, deve essere fatto a livello culturale”. Ed è alla fine del film che vediamo l’avvicinamento tra i due mondi, il superamento della diffidenza. Lo spettacolo -poco parlato, tanto movimento e molta emozione- si conclude con il buio dopo l’ultima battuta. Quando le luci si riaccendono, gli spettatori vanno ad abbracciare gli attori che li accompagnano con delle torce fuori dalla “Jungle”. Il teatro come elemento d’unione in cui il pubblico è chiamato a essere parte attiva.
“Recitare -prosegue Menon- significa accettare di vedere gli altri ma anche accettare che tutti vedano me”. Secondo la drammaturga le persone con cui lavora -dai migranti alle vittime di violenza, passando per tutta altre situazioni di fragilità- spesso non hanno una scena e non sono visibili. “Provo una grande tristezza -conclude- perché ora il dibattito pubblico è dominato dal Covid-19 e di queste persone nessuno parla più. Invece hanno bisogno di mostrarsi e farsi conoscere, come hanno fatto col teatro e come fanno in questo film”.
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