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“The elephant in the room”. Una performance per riflettere sull’urgenza della crisi climatica
L’artista-attivista Johannes-Harm Hovinga ha trascorso dal 22 giugno al 14 luglio presso il museo di Arnhem, in Olanda, sei ore al giorno a bucare con una perforatrice oltre 7mila pagine dei rapporti del Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico (Ipcc), con conseguenze mentali e fisiche e suscitando reazioni diverse tra i visitatori. Sottolineando “la mancanza del senso di necessità”
Un uomo seduto a una scrivania di legno chiaro, senza scarpe e in completo silenzio. Ripetutamente, per sei ore di fila, senza pause se non per andare al bagno, buca con un perforatrice a due fori una pila di fogli colorati trasformandoli in mucchi di coriandoli. Chi ha visitato il museo di Arnhem, in Olanda, dal 22 giugno al 14 luglio ha di certo assistito a questa scena.
L’uomo è l’artista olandese Johannes-Harm Hovinga e la pila di fogli colorati sono le 7.705 pagine dei rapporti dei gruppi di lavoro I, II e III del Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico (Ipcc) e del rapporto di sintesi del 2023.
“Sentivo le persone esclamare frasi del tipo ‘è divertente, sta facendo coriandoli per una festa’ -racconta Hovinga ad Altreconomia-, poi però avvicinandosi capivano di cosa si trattasse veramente e la loro faccia cambiava. Diventavano seri, cominciavano a guardarsi tra di loro e rimanevano immobili”.
Hovinga ci tiene a riportare le reazioni dei visitatori. Secondo la sua filosofia, infatti, l’opera si crea insieme a loro che sono una parte fondamentale anche della sua ultima performance dal nome “The elephant in the room. (The lack of sense of necessity)”, cioè “L’elefante nella stanza. (La mancanza del senso di necessità)”. “Ho scelto questo titolo perché c’è qualcosa di molto importante che sta succedendo, tutti pensiamo che lo sia, ma nessuno vuole veramente rinunciare a qualcosa per questo”.
L’ispirazione è arrivata nella primavera 2022, quando Hovinga, incontrando una festa all’angolo di una strada, ha ripensato al “polverone” sollevato a febbraio quando era stata messa in dubbio la possibilità di continuare le feste di carnevale a causa del Covid-19. In quegli stessi giorni era stata pubblicata anche la seconda parte del paper dell’Ipcc. “Ho iniziato a pensare che non ci fosse nulla di più importante di cui occuparsi. Ho visualizzato come molte persone pensassero più a festeggiare che al clima. Questo è stato per me il collegamento tra urgenza e coriandoli”.
La performance è infatti una metafora di come stiamo continuando a ignorare la pressante realtà del cambiamento climatico, della perdita di biodiversità e dell’impatto dell’inquinamento e un “tentativo artistico di coinvolgere i visitatori del museo in una esperienza di riflessione”. L’artista li definisce infatti “turisti del disastro” che osservano la distruzione simbolica del documento più importante su cui basiamo la nostra conoscenza scientifica sull’innalzamento delle temperature e sulle loro conseguenze. “È anche per questo motivo che ho voluto il museo fosse completamente in silenzio -racconta Hovinga-, così che le persone potessero fermarsi a riflettere. Ci sono già tante urla nel mondo e ognuno vuole gridare più forte dell’altro”.
Definita una “protesta artistica”, “The elephant in the room” mette quindi in discussione il ruolo di ognuno nella crisi climatica e amplifica l’urgenza del messaggio, spingendo verso scelte più consapevoli. “La risposta è stata molto positiva e penso abbia realmente ispirato le persone. Ho ricevuto messaggi in cui mi hanno detto che sono rimaste molto colpite e che hanno intenzione di impegnarsi o cercare di essere più informate -racconta Hovinga-. Alcuni sono rimasti 15-20 minuti davanti a me in lacrime. È stato toccante e mi ha scaldato il cuore. Ci sono stati anche visitatori che mi hanno definito un burattino del World economic forum o che hanno minacciato di interrompere la performance. Alcuni la pensano diversamente sul tema e anche il clima politico in Europa sta cambiando. Ma credo che anche questo faccia parte del mio lavoro”.
“Le persone hanno anche riconosciuto il mio dolore -aggiunge poi-. Fare per venti giorni lo stesso movimento, per un totale di 120 ore, è stato mentalmente e fisicamente molto faticoso, molto più pesante di quello che avessi immaginato. Dopo due giorni, la schiena e il polso hanno iniziato a farmi male e questo mi ha fatto riflettere su quanto il cambiamento sia difficile e spesso richieda molta devozione, lavoro e resistenza”.
Secondo Hovinga il ruolo dell’artista è infatti quello di rendere visibile ciò che è invisibile, assumendosi la responsabilità di dare voce a chi non ha la possibilità di esprimersi, in questo caso il Pianeta e la natura. “In quanto artista penso di dover provare a mostrare alle persone prospettive diverse. E sì, a volte di dover assumere il ruolo dell’attivista. Arte e attivismo per me sono simbiotici”.
Mentre l’umanità si trova in un momento di svolta e deve affrontare questioni impegnative, l’aumento delle temperature, gli eventi estremi, la perdita della biodiversità e le microplastiche per citarne solo alcune, l’arte deve far luce su questi problemi e ispirare l’azione. Nel pensiero dell’artista, ogni intervento deve essere ancorato però al rispetto dei diritti umani, sempre più sotto pressione ovunque, per non correre il rischio di violarli ulteriormente.
Nella sua prossima opera d’arte Hovinga rifletterà infatti sui temi dei confini e delle recinzioni e sulla condizione di rifugiato. Si recherà quindi nel Regno Unito dove realizzerà quattro dipinti della grandezza di centoventi metri per due, lavorando con il gesso delle bianche scogliere di Dover.
Tra i suoi piani futuri c’è anche l’idea di replicare la performance durante la prossima conferenza Onu sul cambiamento climatico (Cop29) che si terrà a novembre a Baku, in Azerbaigian. E di ripetere l’esperienza in altre città come Londra e Parigi. “Mi piacerebbe anche portare il mio lavoro a Venezia, penso che sarebbe il luogo più adatto, dato che è molto coinvolta dal cambiamento climatico”.
Il 25 luglio Hovinga è tornato al museo di Arnhem per ripulire e recuperare le 150 pagine circa del rapporto dell’Ipcc che sono rimaste intatte. “All’inizio riuscivo a bucare anche tre fogli insieme, uno sopra l’altro. Poi però era troppo faticoso e ho dovuto ridurre anche il ritmo perché il polso mi faceva troppo male. Anche questo è stato per me un segno: per quanto impegno tu ci possa mettere non puoi cambiare le cose da solo. È necessario infatti farlo tutti insieme”.
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