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Diritti / Attualità

“Stop fondamentalismi. Stop apartheid di genere”. La campagna del Cisda

Il Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane ha lanciato una petizione per chiedere al governo italiano e alle Nazioni Unite di riconosce l’apartheid di genere come crimine contro l’umanità al pari delle discriminazioni su base etnica. E di non riconoscere il governo dei Talebani, sostenendo invece i movimenti democratici del Paese. Una lotta che non si “limita” all’Afghanistan

Apartheid di genere significa qualsiasi atto, politica, pratica o omissione che, in modo sistematico e istituzionalizzato, è commesso da un individuo, uno Stato, un’organizzazione, un’entità o un gruppo, con lo scopo o l’effetto di stabilire, mantenere o perpetuare il dominio di un genere sull’altro, attraverso la segregazione istituzionalizzata, l’oppressione o la discriminazione in ambito politico, economico, sociale, culturale, educativo, professionale o in qualsiasi altro ambito della vita pubblica e privata”.

È la definizione di crimine di apartheid di genere che il Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane (Cisda), con il supporto di un team di giuriste, ha elaborato e inviato direttamente attraverso la delegazione italiana alla VI Commissione delle Nazioni Unite che sta lavorando all’elaborazione di un Trattato globale per la prevenzione e la punizione dei crimini contro l’umanità.  

È un lavoro complesso, sul quale l’Onu si sta confrontando da sei anni. Alla fine del 2024, tuttavia, nonostante l’ostruzionismo di alcuni Paesi, è stato delineato un percorso che definisce una tempistica per le proposte che gli Stati membri e la società civile possono sottoporre alla Commissione, anche se le negoziazioni vere e proprie sul Trattato sono previste solo nel 2028 e 2029. 

Per sostenere il proprio contributo a questo processo, il Cisda, con la rete di associazioni con la quale collabora in Italia e in Europa, ha lanciato la “Campagna Stop fondamentalismi – Stop apartheid di genere“, evidenziando la stretta connessione tra fondamentalismi e apartheid di genere.

Nell’ambito di questa campagna è stata avviata una raccolta firme per una petizione con la quale si chiede al governo italiano di sostenere una serie di obiettivi e di farsene promotore presso le istituzioni internazionali. Iniziando dal riconoscimento dell’apartheid di genere come crimine contro l’umanità (al pari di quello su base etnica) all’interno dei Trattati internazionali e di come sia applicato sistematicamente e istituzionalmente in Afghanistan; al non riconoscimento, né giuridico né di fatto, del regime fondamentalista talebano, sostenendo l’azione presa da alcuni Paesi di deferimento dell’Afghanistan alla Corte internazionale di giustizia per violazioni della Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne e quella alla Corte penale internazionale per ulteriori indagini sulle continue violazioni dei diritti delle donne compiute dai talebani.

Infine, il Cisda chiede il sostegno alle forze afghane antifondamentaliste e democratiche non compromesse con i precedenti governi e i partiti fondamentalisti. E contestualmente di negare la rappresentanza alle esponenti e agli esponenti politici dei precedenti governi afghani, rappresentanti di una classe politica corrotta. 

Ma entriamo nel dettaglio di ciascuno di questi obiettivi e cerchiamo di capire perché sono così fortemente connessi. 

Prima di tutto bisogna ricordare che il concetto di “apartheid di genere” non è ancora codificato nel diritto internazionale come crimine in quanto quello di apartheid, come definito nello Statuto di Roma della Corte penale internazionale, si concentra sulla discriminazione razziale. 

Le violazioni dei diritti umani basate sul genere, come la violenza sessuale, lo stupro, la negazione dei diritti riproduttivi e la segregazione di genere hanno invece caratteristiche uniche distinte dalla discriminazione razziale e il loro riconoscimento come crimine consentirebbe di affrontare, a livello giuridico internazionale, le violazioni sistematiche che colpiscono ragazze, donne e individui non conformi al genere, come le persone Lgbtqi+. 

Nella definizione proposta dal Cisda, gli elementi chiave sono la segregazione istituzionalizzata, l’oppressione e la discriminazione, caratteristiche fondamentali dei regimi storici di apartheid, ma si sottolinea che tali atti possono essere commessi anche da attori statali, come gruppi organizzati. Si tratta di una precisazione importante che evidenzia il ruolo che questi ultimi possono svolgere nel commettere e perpetuare gravi violazioni dei diritti umani. A tutto ciò si aggiunge l’inclusione dell’omissione come forma di condotta criminale, in cui le autorità non agiscono per prevenire o punire la discriminazione o la violenza di genere. 

Importante è poi la definizione del “soggetto passivo” nella quale è compreso qualsiasi gruppo di persone identificate dal loro genere e gli individui non conformi al genere: una definizione fondamentale per estendere le protezioni oltre il tradizionale concetto binario uomo-donna e andare a perseguire la discriminazione e le azioni violente rivolte alle persone Lgbtqi+.

Il Cisda ha voluto collegare strettamente il concetto di “fondamentalismi” (il plurale non è un caso) a quello di apartheid di genere perché ritiene che la discriminazione e l’oppressione sulla base del genere della persona siano diretta conseguenza di un approccio fondamentalista alla società. Approccio che non riguarda esclusivamente l’Islam o le religioni in generale. 

Ormai assuefatti ad associare il fondamentalismo all’Islam, dimentichiamo infatti che il termine nasce da un movimento religioso protestante diffuso soprattutto negli Stati Uniti a fine Ottocento, che, in opposizione al protestantesimo liberale e a tutte le tendenze razionalistiche e critiche, impone l’accettazione rigida e intransigente dei “fondamentali” del Cristianesimo. E per venire all’oggi, basti pensare ai movimenti estremisti cristiani antiabortisti per comprendere quanto il fondamentalismo non sia esclusiva peculiarità di alcune interpretazioni dell’Islam. 

E non è un fenomeno circoscrivibile alla sola religione perché il termine fondamentalismo indica “l’atteggiamento di chi persegue un’interpretazione estremamente conservatrice e un’attuazione rigida e intransigente di una religione, un pensiero politico, scientifico, letterario”. Per questo il Cisda ha scelto di utilizzare il plurale, perché vuole dire “Stop” a qualsiasi forma di fondamentalismo, sia esso religioso o politico o razziale o ideologico. 

Concretamente la campagna, e di conseguenza la petizione, si focalizza sulla condanna al regime fondamentalista talebano, responsabile della soppressione dei più elementari diritti umani della popolazione civile, in particolare delle donne e degli individui Lgbtqi+, frutto del deliberato proposito di tradurre in sistema di governo un’idea fondamentalista che ha come principale obiettivo l’annientamento sistematico e istituzionale delle donne. 

L’Afghanistan è il Paese che rappresenta il caso più emblematico di “apartheid di genere”. Qui le donne non possono andare a scuola, lavorare, uscire da sole, frequentare parchi, giardini o bagni pubblici, mostrare il volto in pubblico, cantare, pregare ad alta voce e sono bandite dalla vita pubblica e sociale per rimanere segregate in casa. 

Anche se in Afghanistan l’apartheid di genere è un crimine perpetrato quotidianamente, l’autodeterminazione della donna vede drammatiche limitazioni ovunque nel mondo, anche in quello occidentale. Per questo la condanna ai fondamentalismi va di pari passo con la promozione del valore della laicità, unico argine efficace alla barbarie. 

Ed ecco che veniamo al terzo obiettivo indicato nella petizione del Cisda: il sostegno alle forze afghane antifondamentaliste e democratiche non compromesse con i precedenti governi e con i partiti fondamentalisti.

Quello della laicità e dell’adesione ai principi democratici delle forze di opposizione a un regime assolutista e fondamentalista è un tema vitale che, in un momento in cui l’Afghanistan è ormai uscito dai radar dei media, è prepotentemente tornato alla ribalta in Siria dove la gioia per la caduta del criminale Bashar al-Assad rischia di trasformarsi in nuovo terrore per la salita al potere del gruppo fondamentalista Tahrir al-Sham. 

La storia dell’Afghanistan può dunque essere un monito per chi guarda l’attualità con occhi superficiali. Dalla fine degli anni Settanta ha subito ingerenze straniere da parte di potenze internazionali e regionali che hanno finanziato e armato gruppi fondamentalisti. Questi drammatici eventi, comuni a molti Paesi, hanno generato decenni di guerre provocando migliaia di vittime civili, corruzione endemica, traffico di droga, devastazione del tessuto sociale e ambientale e migrazioni forzate.

Ma in Afghanistan ci sono anche organizzazioni democratiche che, fin dagli anni Settanta, si sono attivate per l’uguaglianza e la giustizia sociale delle donne, per i diritti fondamentali all’istruzione, alla difesa legale, alle cure mediche e per la liberazione dalla povertà e dalla violenza. Come ad esempio l’Associazione rivoluzionaria delle donne afghane (Rawa) o l’Associazione umanitaria per l’assistenza alle donne e ai bambini dell’Afghanistan (Hawca) che il Cisda sostiene dalla loro nascita. 

Uomini e donne che, nonostante avessero l’opportunità di lasciare il Paese dopo il ritorno dei talebani, hanno deciso di rimanere, sfidando i rischi quotidiani del regime repressivo talebano, e continuano a operare in Afghanistan a fianco delle donne, dei bambini, di una popolazione che per la maggioranza vive in condizioni di estrema povertà oltre che di oppressione e di negazione di ogni diritto umano. 

Ed è importante che, insieme al sostegno alle forze democratiche e antifondamentaliste, non venga riconosciuta alcuna rappresentanza politica alle esponenti politiche e agli esponenti politici dei precedenti governi afghani, rappresentanti di una classe politica corrotta. Troppo spesso infatti si vedono assurgere al ruolo di difensori dei diritti delle donne afghane personaggi ambigui e compromessi con i precedenti regimi. 

Patrizia Fabbri è attivista per il Cisda, il Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane, che da tempo collabora con Altreconomia. Per seguire i progetti del Cisda e sostenerne l’operato clicca qui

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