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L’interessato dialogo con i Talebani, l’ultimo tradimento occidentale dell’Afghanistan

© Ehimetalor Akhere Unuabona - Unsplash

Per non farsi sfuggire preziosi accordi economici, Stati Uniti e alleati tentano di convincere l’opinione pubblica dell’opportunità di normalizzare i rapporti con il regime. Altrimenti i contratti li faranno altri, è il ricatto. “Non è ciò che ci chiedono le attiviste in lotta”, denuncia il Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane

Nel tentativo strisciante di portare l’opinione pubblica verso il riconoscimento del governo dei Talebani la nuova parola magica è “engagement”, nella versione italiana dell’ambasciatrice per l’Afghanistan Natalia Quintavalle, o “normalizzazione” in quella dell’inviata speciale degli Stati Uniti per i diritti umani e le donne afghane Rina Amiri al Forum di Doha . 

Questa “nuova” definizione serve a nascondere all’opinione pubblica, indignata per il trattamento riservato in Afghanistan alla popolazione e in particolare alle donne, la reale volontà degli Stati Uniti e dei governi occidentali, cioè quella di riprendere con i Talebani quei colloqui che li avevano riportati al governo del Paese nel 2021. Un dialogo poi ufficialmente interrotto perché difficilmente giustificabile, data l’evidenza del persistere del loro fondamentalismo e della gravità dei provvedimenti antidemocratici presi da quel governo, ritornato al potere dopo 20 anni di una guerra che l’Occidente diceva fatta appositamente per eliminarli. 

Quindi ancora non si accetta di “riconoscere” ufficialmente il governo talebano ma si ammette la necessità di dialogare, come atteggiamento pragmatico che riconosce che questo è un dato di fatto e che, se non lo facciamo noi, il dialogo e i contratti economici li faranno solo le altre potenze regionali più o meno grandi. La giustificazione di questo cedimento è nello stato di bisogno immenso in cui si trova la popolazione afghana, ridotta alla fame da quarant’anni di conflitti, da fattori economici e climatici (freddo, carestia, terremoto) e, non ultima, dalla politica dei Talebani stessi. 

Questa strada era stata aperta nella primavera scorsa quando John Sopko, l’Ispettore generale speciale per la ricostruzione afghana (Sigar), aveva affermato pubblicamente e con grande indignazione che gli aiuti umanitari largamente mandati in Afghanistan erano stati per lo più sequestrati dai Talebani per far funzionare il loro apparato statale e mantenere i loro sostenitori, lasciando così alla popolazione sole le briciole. Si erano aggiunti i resoconti dei vari importanti enti internazionali che si occupano di aiuti all’Afghanistan che affermavano delusi che i risultati in termini di miglioramenti per la popolazione erano molto scarsi. 

Si è così cominciata a insinuare l’idea della necessità di un cambiamento di strategia, la necessità di dare un aiuto non solo emergenziale quanto invece un sostegno alla ripresa dell’economia del Paese. Erano quindi iniziate le manovre di avvicinamento, prima dando al turco Feridun Sinirlioğlu, coordinatore speciale delle Nazioni Unite per gli affari afghani, l’incarico di stendere un rapporto “indipendente” per indicare la strada con cui arrivare alla “piena normalizzazione e integrazione dell’Afghanistan nel sistema internazionale”. Quindi con riunioni internazionali a vari livelli, infine, il 10 e 11 dicembre, con il contatto diretto tra Stati Uniti e Talebani avuto con il Forum di Doha. 

Conferenza che, dopo le raccomandazioni e le lamentele sul mancato riconoscimento del diritto all’istruzione e al lavoro delle ragazze e delle donne, si è concentrata sui veri problemi che interessano ai Talebani e agli Stati convenuti: le modalità di sblocco dei soldi afghani trattenuti dagli Usa e le possibilità di ripresa dell’economia afghana, con conseguenti accordi economici, commerciali, in vista di una “normalizzazione” senza “riconoscimento” che faccia dell’Afghanistan uno dei tanti Paesi al mondo che non rispettano i diritti umani come dovrebbero ma con i quali si fanno affari economici perché “se si ferma l’economia si ferma tutto e anche la popolazione affamata ne risente”. 

Anche l’Italia è perfettamente inserita nella prospettiva di dialogo con i Talebani, come ha spiegato chiaramente l’ambasciatrice Quintavalle in una intervista pubblicata da Avvenire a fine novembre 2023. Ha detto che la sua funzione è proprio quella di fare da ponte tra le ambasciate fuori sede (che, come la nostra, non vogliono mostrare di avere contatti diretti con Kabul), i funzionari delle Ong, gli esuli afghani e i Talebani.

Incontra regolarmente esponenti di Kabul per fare engagement, cioè coinvolgerli nelle cose concrete (intervento umanitario, terrorismo, economia), perché su queste tematiche pratiche è più facile trovare un accordo che non sui discorsi di principio, l’anti-fondamentalismo e la laicità, il rispetto dei diritti umani e delle donne. Problematiche che, una volta enunciate e contestate da entrambe le parti, vengono appunto accantonate per passare a problemi più stringenti, pratici. Su questi i Talebani dialogano volentieri, anzi sono addirittura d’accordo sul concedere l’istruzione alle ragazze, non fosse per quel “cattivo” dell’emiro che, da lontano comanda però su tutto e tutti e non la vuole. Ma forse ce la faranno a mandare le ragazze almeno nelle scuole religiose, dove non si impara niente tranne che la religione (abbiamo visto recentemente che perfino i ragazzi che le hanno frequentate ne sono usciti delusi perché si sono resi conto di non avere niente in mano di spendibile per il loro futuro) ma, insomma, almeno queste ragazze possono uscire di casa, poverine, svagarsi un po’, e forse non si suicideranno più così tanto come ora.

L’ambasciatrice afferma che questo le chiedono le donne e le ragazze rimaste in Afghanistan. Ma appare difficile che da lontano e dalla sua posizione istituzionale abbia contatti diretti con loro e sappia che cosa vogliono. Sono infatti le ex leader politiche uscite dal Paese che vengono invitate ai vari consessi internazionali, e che sicuramente lei avrà spesso incontrato. Pensiamo a Fazia Kofi, Rangina Hamidi, Hoda Khamosh, Mahbouba Seraj, le stesse che hanno partecipato direttamente ai Colloqui di Doha del 2019, che si spendono in ogni occasione per perorare la necessità di dialogare con i Talebani e convincerli a fare un governo più “inclusivo”, cioè un governo che permetta loro di tornare a occupare quelle posizioni di leader, fosse anche di secondo piano, che avevano nel vecchio esecutivo. 

Non è questo, invece, che vogliono e ci chiedono le attiviste che vivono in Afghanistan, che lottano e manifestano in tutti i modi la loro opposizione al regime dei Talebani e alla sua normalizzazione. Perché non c’è niente in quell’ideologia e in quella pratica di governo che possa essere considerato accettabile anche solo in minima parte o tradursi in leggi che consentano la vita e i diritti delle donne e della popolazione afghana. 

Beatrice Biliato fa parte del Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane (Cisda)

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