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Cultura e scienza

Stefano Bollani. Il virtuoso della musica raccontata

“Apertura” e “contaminazione” sono i valori che guidano la ricerca del pianista. Che quando scrive un disco o sale sul palco cerca “la libertà dai condizionamenti”

Tratto da Altreconomia 183 — Giugno 2016

L’ultimo approdo del musicista Stefano Bollani è Napoli, soggetto delle sedici tracce di “Napoli Trip” (DECCA), il suo disco uscito a fine maggio. Una mescolanza di sguardi -com’è tra le altre “Apparentemente”, Bollani è al fender rhodes-, voci -la sua, quando canta “Guapparia 2000”, scritta da Lorenzo Hengeller- e melodie -con un tributo a Pino Daniele con “Putesse essere allero”, o “Reginella” insieme al mandolino di Hamilton De Holanda-. Lui lo definisce un “affresco” e ne è stato il promotore, facendosi poi accompagnare da amici e artisti napoletani e non. 

Stefano, come nasce e dove arriva “Napoli Trip”?
SB Innanzitutto mi sono scelto due compagni di viaggio, uno napoletanissimo, di una Napoli che mi piace, che è Daniele Sepe, e un altro, lontanissimo -molto più di me- dal mondo napoletano, che è un dj norvegese che si chiama Jan Bang. Ho iniziato a lavorare al disco a novembre e l’ho costruito intorno a queste due collaborazioni, lasciando a loro la cucina della torta e a me la ciliegina, anche se poi è ricco di altri musicisti di formazioni diverse e momenti di piano solo; volevo avere uno sguardo più ampio possibile, tenuto insieme dal mio, su Napoli. Dal repertorio della tradizione alla canzone più recente, dall’avanspettacolo alla tammurriata, fino alla melodia. Ma tutto questo volevo osservarlo da più punti di vista. 

Per questo progetto hai creato composizioni che hai poi lasciato “affrontare” ad altri. Perché?

SB Apertura e contaminazione sono per me preziose in fase di immaginazione di un progetto perché io ho un vissuto con Napoli, anche se non ci sono nato. Ho certe passioni e ho bisogno di persone che mi aiutino a scoprire altro. Possono essere persone che ci abitano, che la vivono, che vivono la musica napoletana, oppure persone che sono ancora più lontane da me. Ho sempre bisogno di confrontarmi con qualcuno che vede le cose in maniera diversa, altrimenti mi annoio. Avrei rischiato di confezionare un intero omaggio a Renato Carosone -la mia passione-, ma volevo ampliare gli orizzonti. 

Che rapporto hai con il linguaggio e come osservi il peggioramento di quello che caratterizza, ad esempio, il “discorso pubblico” nel nostro Paese?
SB Sarò un chiacchierone, ma le parole sono sempre troppe e sono nate apposta per confondere. Le lingue sicuramente, come dice la Bibbia nella Torre di Babele. Delle parole non s’azzarda a far menzione ma in realtà anche la parola è uno strumento che ci allontana. Io posso immaginare che un tempo comunicassimo in maniera più diretta. Questo non vuol dire che il mondo fosse migliore o peggiore, ma voglio dire che le parole sono incomprensibili. Ognuno appone il significato che preferisce e questo avviene anche con la musica. Se ascolto una musica kenyota senza conoscere nulla della loro tradizione non posso avere la stessa percezione di un kenyota che piange perché a lui ricorda la guerra. A livello profondo la musica è vibrazione, suono, e quindi parla direttamente al nostro interno. Il discorso musicale non presuppone una morale, un rimprovero, una relazione psicologica precedente tra chi sta suonando e chi ascolta, è pulito. Il canale è pulito, sta a noi non farlo diventare simile a quello del linguaggio che parliamo, che invece è pieno di cose: ogni mia parola è piena di sfumature che non saranno mai le tue. Quando nella musica strumentale entra in gioco la parola si crea un cortocircuito.

Eppure hai iniziato a scrivere i testi. Penso al recente album “Arrivano gli alieni” (DECCA, 2015). È un segnale di speranza?
SB Forse sì, c’è la speranza che il testo veicolato dalla musica arrivi in maniera più fluida, scorra più semplicemente. Possa cioè colare nelle orecchie dell’ascoltatore come del miele, non come un diktat o un discorso. Le tre canzoni che ci sono nel disco “Arrivano gli alieni” erano cose che volevo dire. Se le avessi scritte in un pamphlet non mi sarebbe piaciuto quel tono. E quindi ho dovuto trovarne un altro per raccontarle. Idem per il teatro, per il quale ho scritto una cosa (La regina Dada, ndr) insieme a Valentina (Cenni, ndr), la mia compagna. Anche lì il tentativo era dire delle cose che con la musica non riuscivo a esplicitare.

In passato hai attraversato la stagione degli spazi culturali recuperati, contro i tagli indiscriminati alla “cultura”. Come giudichi il suo stato di salute oggi?
SB Il tentativo dall’alto è quello di chiudere baracca con questa storia della cultura, come se l’idea di cultura avesse fatto comodo a lungo, anche per farci andare in guerra. Una cultura contro l’altra, appunto. Ora si chiudono i teatri o i programmi culturali in Tv, stabilendo nella nostra percezione che “quella cosa lì” non serve. È più importante mangiare, lavorare, pedalare e portare avanti l’economia. È una scelta dall’alto, lucida: non so se questo sia sempre negativo o positivo, perché è vero anche che l’idea stessa di cultura con la “c” maiuscola ha fatto dei grossi danni.

Con il racconto della musica ti sei confrontato. Hai scritto libri (“Parliamo di musica”, Mondadori), condotto programmi tv e radiofonici. A un giovane lettore sapresti suggerire come scoprire la musica?
SB Sai che non ho una risposta? Quello che so è che bisognerebbe andare per tentativi, e non si stanno facendo. In generale nel campo dell’insegnamento non ci sono tentativi, ci sono scuole radicate nelle quali si è deciso un ordine e s’impronta la disciplina di un ragazzo a un futuro rigido, a compartimenti stagni. Insegnare è un verbo difficile da declinare, io per primo non saprei prendere un ragazzo e “portarlo su”, o lasciargli far ciò che vuole al meglio. Che poi dovrebbe essere lo scopo dell’insegnamento. 

Per il gruppo inglese “Radiohead”, la frontiera digitale tende a sottrarre i contenuti e minacciare l’indipendenza dell’artista. Tu come ti relazioni con questo strumento?
SB In realtà io vedo enormi potenzialità. Più semplicemente, come tutti gli elettrodomestici, dobbiamo capire come usare internet, dopo un periodo di bulimia in cui tutti guardano tutti e non si soffermano su nulla. Segnalo però che questo può essere un modo per ascoltare più musica possibile: quand’ero bambino avrei dovuto cercarmi quel coro africano di cui avevo sentito parlare mentre ora posso scaricarmelo e ascoltarlo. Per citare Armstrong, intendo Neil, questo è un grosso passo per l’umanità. Faccio parte di una generazione che si è trovata sotto al naso lo strumento e forse non ci ho riflettuto abbastanza. 

Nel ripercorrere l’album “Da questa parte del mare”, Gianmaria Testa (scrittore e cantautore con il quale Bollani ha collaborato, scomparso nel 2016) ha scritto che per lui la musica non era un “obbligo da cui liberarsi secondo ritmi dettati da un qualche contratto”. Tu come vivi questo rapporto?
SB A volte mi sono distratto ma tendenzialmente penso di aver tenuto la barra dritta, un’espressione che forse piacerebbe a Gianmaria. Penso che una delle cose difficili, ma da affrontare, è come districarsi e continuare a fare quello che vuoi fare. Vale per tutti nella vita e anche per i musicisti, che sembrano animali liberi quando salgono sul palcoscenico. Mi son trovato a scrivere questo libro con dei ritratti di musicisti (“Il monello, il guru, l’alchimista e altre storie di musicisti”, Mondadori, ndr), accorgendomi solo alla fine che stavo dipingendo quelli che -ognuno a modo suo- avevano cercato la libertà dai condizionamenti, dalle mode, da se stessi e dalle paure. E penso che sia un grande argomento questo, sfuggire alle logiche di mercato discografico. E, ancora di più, sfuggire all’idea che tu debba suonare su quel palco per compiacere qualcuno.

È accaduto con “Napoli Trip”?
SB Sì, decisamente. Ho fatto quello che ho voluto, non per compiacere qualcuno ma per far piacere a qualcuno. 

 

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