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Bianca Stancanelli. La storia di un uomo che non muore

Un momento del sit-in di protesta a Napoli a seguito dell'omicidio di Soumaila Sacko, migrante maliano di 29 anni, uccisio a colpi di fucile a San Calogero (Vibo Valentia) 4 giugno 2018. © Ansa/Ciro Fusco

Il 2 giugno 2018, in Calabria, veniva assassinato Soumaila Sacko, 29 anni, originario del Mali. Un libro inchiesta ne ha ricostruito l’esistenza da vivo, incancellabile e presente

Tratto da Altreconomia 226 — Maggio 2020

Il 2 giugno 2018, giorno della festa della Repubblica, Soumaila Sacko è ucciso con una fucilata alla testa in una fornace abbandonata nelle campagne calabresi. Aveva 29 anni e veniva dal Mali. Insieme a due amici, stava raccogliendo alcune lamiere per costruire una baracca nel ghetto della piana di Gioia Tauro. Come racconterà alla polizia uno dei ragazzi sopravvissuti, a prendere la mira e a sparare è un uomo dalla “carnagione chiara” seduto su una sedia bianca, oggi imputato. Ricostruisce la vita di Soumaila Sacko, dal suo arrivo a Taranto nel periodo dell’operazione Mare Nostrum al lavoro come bracciante nei campi di San Ferdinando, la giornalista e scrittrice Bianca Stancanelli nel libro “La pacchia”, pubblicato da Zolfo Editore. Cronista de L’Ora di Palermo, Premio nazionale Borsellino nel 2016, Stancanelli ripercorre la vita di Sacko e studia le carte, rivelando le assurdità della vicenda. La stessa giornata in cui Soumaila perdeva la vita -colpito con un proiettile calibro 12, una delle pallottole usate per mirare ad animali di piccola taglia, di un’arma mai ritrovata-, in un comizio a Vicenza Matteo Salvini, appena nominato ministro dell’Interno, rivolgendosi ai migranti in Italia scandiva: “La pacchia è finita”. Un’affermazione “poi diventata una formula spietata e uno slogan”, spiega l’autrice. “Che questa frase venisse pronunciata nelle stesse ore in cui un uomo moriva assassinato nel Sud, dove in migliaia lavorano senza diritti nelle nostre campagne per le nostre tavole, mi è sembrata una dolorosa e beffarda coincidenza”.

Perché ha deciso di raccontare la storia di Soumaila Sacko?
BS Molte persone ricordano quanto successo perché la notizia della morte di Soumaila ha avuto molta risonanza. Il sindacato Unione sindacale di base aveva organizzato una campagna di crowdfunding per fare ritornare la salma in Mali da sua moglie e dalla famiglia. Ci sono state manifestazioni di protesta e solidarietà a Reggio Calabria, nel foggiano, a Roma e a Milano. Eppure anche quando una vicenda suscita grandi emozioni, si corre il rischio che non ne resti più traccia. Volevo che ne rimanesse il ricordo. Quando ho iniziato a occuparmene, mi è venuto in mente che tutto quello che avremmo saputo su Soumaila era il fatto che fosse stato ucciso. Ma volevo ricostruire la sua storia da vivo. Capire cosa avesse spinto un giovane del Mali a lavorare in Calabria e a morire per avere raccolto quattro lamiere arrugginite.

“Volevo che ne rimanesse il ricordo. Quando ho iniziato a occuparmene, mi è venuto in mente che tutto quello che avremmo saputo su Soumaila era il fatto che fosse stato ucciso”

Dopo la morte di Sacko, come viene data la notizia?
BS Bisogna partire da un antefatto: la rivolta dei migranti del 2010, che ha lasciato una profonda traccia a Rosarno. Quando si diffonde la notizia della morte di Soumaila, nelle autorità scatta il riflesso incondizionato di prevenire un’altra rivolta. La prefettura di Reggio Calabria diffonde un comunicato notturno in cui si parla di un uomo “attinto da colpi di fucile da parte di ignoti, verosimilmente nel tentativo di effettuare un furto”. Nei primi momenti, non si pone l’attenzione su un uomo che è stato assassinato ma su un “furto” in una fornace abbandonata, che è già una contraddizione. Si presenta una narrazione che impone un tono a chi la legge e ascolta: la vittima è vittima perché è un ladro. La forma cambia grazie al sindacalista dell’Usb Aboubakar Soumahoro, che sottolinea con forza come Soumaila fosse un lavoratore che stava iniziando a frequentare le riunioni del sindacato. Aveva partecipato ad assemblee e cortei. Le attività di Soumaila mostrano un ragazzo solidale: si era iscritto alla scuola di italiano fondata dall’associazione Sos Rosarno, che non è mai riuscito a frequentare, e aveva fondato un’associazione con l’obiettivo di aiutare chi rimaneva senza riparo nella baraccopoli di San Ferdinando. Le baracche sono tirate su con rimedi di fortuna, come cartoni e plastica, e gli incendi sono frequenti. Soumaila muore per avere recuperato del materiale che avrebbe potuto evitare che un’abitazione prendesse fuoco.

Soumaila Sacko si era iscritto anche alla scuola di italiano fondata dall’associazione Sos Rosarno © Sos Rosarno

Sacko era nato e cresciuto in un villaggio isolato nelle aride regioni occidentali del Mali. Era stato spinto a emigrare a causa della siccità. Che cosa lascia nel suo Paese?
BS La sua è una famiglia di contadini. Orfano di padre, era diventato il capofamiglia e a sua volta sposo e padre di una bambina. Quando ho scritto il libro, ho ripercorso le tracce della cooperazione internazionale in Mali. Nel gennaio del 1989, mese di nascita di Soumaila, nella regione di Kayes, la sua zona di origine, arriva una delegazione di esperti della Cooperazione italiana con il compito di occuparsi della ricostruzione di un sistema sanitario nel Paese. La missione redige un rapporto in cui sottolinea come, oltre ai cambiamenti climatici, le cause della siccità dall’area siano anche da ricondurre ai tempi del colonialismo francese: le coltivazioni intensive imposte sul territorio hanno creato le condizioni che oggi impediscono l’agricoltura.

“Si guadagna un euro per una cassetta di mandarini e 50 centesimi per una di arance. Un sistema radicato nella Piana di Gioia Tauro”

Una figura importante è don Roberto Meduri. Dà le prove della vita di Soumaila.
BS Don Roberto Meduri è in grado di ricostruire il lavoro che Soumaila stava facendo, quale sarebbe stato il suo ingaggio successivo e che si trovava a San Ferdinando per potere ricevere un pagamento. È stato lui a portarlo in ospedale, dopo che si era sentito male. È un punto di riferimento: a lui consegnano la posta per chi vive nella tendopoli, il suo pulmino è diventato un ufficio dove conserva le immagini e le foto dei ragazzi, li aiuta con le pratiche del permesso di soggiorno, tiene i contatti con i loro avvocati. È un amico e confidente nella vita quotidiana di tutti. Mi ha raccontato che Soumaila era un grande lavoratore, premuroso e altruista. Si arrabbiava solo quando nella tendopoli arrivavano giornalisti a riprendere e fotografare.

Che cosa è cambiato dalla morte di Sacko?
BS Nulla. Le condizioni abitative e lavorative sono le stesse. Dopo lo sgombero della baraccopoli, i migranti continuano a vivere in insediamenti informali, capannoni, casolari abbandonati senza luce, acqua e servizi igienici. Lavorano in nero, anche per più di dieci ore al giorno, per un compenso di pochi euro da cui si detrae la percentuale per il caporale. Si guadagna un euro per una cassetta di mandarini e 50 centesimi per una di arance. Un sistema radicato nella Piana di Gioia Tauro.  È significativo l’estratto conto previdenziale dell’Inps intestato a Soumaila.  Un documento agghiacciante perché risulta che aveva lavorato solo dodici giornate nel 2017 e quindici giornate nel 2018. Ma Don Roberto racconta che non stava mai fermo. Dopo la sua morte è stato aperto uno sportello diritti con il suo nome ma non è cambiato nulla. Al contrario con l’annullamento della protezione umanitaria, seguita al decreto sicurezza, la situazione è anche peggiorata.

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