Diritti / Opinioni
“Signornò”: l’obiezione di coscienza è ancora attuale
I giovani russi e ucraini rifiutano di impugnare le armi memori delle guerre del passato e delle loro conseguenze. Una storia che ritorna. La rubrica di Lorenzo Guadagnucci
“Signornò”. Era lo slogan degli obiettori di coscienza cinquanta e più anni fa. Quegli obiettori erano antimilitaristi, contestavano ciò che per secoli aveva definito la forza e l’identità di ogni nazione, di ogni potere: gli eserciti, le guerre. Nell’Europa devastata da due conflitti mondiali e trasformata in un immane cimitero, quel messaggio (“Signornò”) aveva una sua profonda ragione storica, eppure fu a lungo percepito come insopportabile e blasfemo.
Era “un’espressione di viltà”, nelle parole dei cappellani militari italiani a cui rispose don Lorenzo Milani nella sua famosa lettera aperta. Un testo che ridefiniva il concetto di patria e gli strumenti per difenderla: “Almeno nella scelta dei mezzi -scriveva il parroco di Barbiana- sono migliore di voi: le armi che voi approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove. Le uniche armi che approvo io sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto”. Don Lorenzo, nella lunga lettera, ripercorreva la storia d’Italia e delle sue guerre, per lui tutte ingiuste e inutili, tranne la Resistenza. Don Lorenzo fu processato e, ormai morto, anche condannato. Ma la sua lotta non fu vana, come non lo fu l’impegno degli obiettori di coscienza che preferivano il carcere militare alla naia: nel dicembre 1972 il parlamento riconobbe il diritto all’obiezione di coscienza al servizio militare.
Nei decenni successivi, col tramonto della leva obbligatoria, il “Signornò” è parso una reliquia della storia. E invece, passati cinquant’anni e di fronte a sempre nuove guerre, anche sul suolo d’Europa ormai “contaminato” -nel senso descritto da Martin Pollack nel suo libro “Paesaggi contaminati” (Keller), un reportage fra le innumerevoli fosse comuni disseminate nel continente- l’obiezione di coscienza agli eserciti e alle guerre torna di prepotente attualità.
È stato un errore ammainare quella bandiera, oggi portata in condizioni proibitive dai giovani ucraini e russi che rifiutano le armi e gli odi collegati, che chiedono una tregua, un cessate il fuoco, l’intervento immediato delle diplomazie, memori (più di altri) delle guerre europee del passato e dei loro devastanti effetti, destinati a protrarsi per generazioni.
772 è il numero della legge -primo firmatario il democristiano Giovanni Marcora- che legittimò l’obiezione di coscienza al servizio militare, introducendo il servizio civile alternativo. Fu approvata il 15 dicembre 1972.
A Kiev come a Mosca il “Signornò” è oggi un termine che si paga caro, è la parola di chi tradisce la patria, la scelta dei “vili”, per dirla coi cappellani militari dei nostri anni Sessanta. E invece la storia del Novecento può essere letta come la tragedia dell’obbedienza che spingeva i soldati italiani (e la catena di comando) a eseguire l’ordine assurdo di sfidare a petto nudo le mitragliatrici austriache sul Carso. L’obbedienza dei soldati (e della catena di comando) mandati in Russia a compiere una missione impossibile da un capo di Stato borioso e incosciente. L’obbedienza di chi eseguì innumerevoli stragi di civili o partecipò alla distruzione degli ebrei in Europa accampando la scusa di eseguire degli ordini.
“Nessuno ha il diritto di obbedire”, ha ammonito la filosofa Hannah Arendt. Fra i tanti monumenti costruiti in memoria dei caduti nelle guerre europee, tutti concepiti sul terreno dell’eroismo e del sacrificio, manca quello più importante: il monumento al disertore. Se avessimo dato senso al nostro agire, come persone e come collettività, perfino come Stati, considerando a pieno l’eredità morale di disertori, renitenti e refrattari alla guerra, avremmo forse un presente meno rassegnato al distruttivo e pressoché incontrollabile dominio della violenza e delle armi.
Lorenzo Guadagnucci è giornalista del “Quotidiano Nazionale”. Per Altreconomia ha scritto, tra gli altri, i libri “Noi della Diaz” e “Parole sporche”
© riproduzione riservata