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Se la libera circolazione delle persone si riduce al calcolo degli “stock umani necessari”

© Max Bohme -Unsplash

La comunità del futuro sarà inevitabilmente composita in ogni Paese del mondo e non accettarlo significherà solo creare tensioni insostenibili a livello globale e centinaia di migliaia di morti. Ma il governo incentiva la competitività acquisita per effetto del brutale abbattimento delle retribuzioni. L’analisi di Alessandro Volpi

La libera circolazione degli esseri umani ha svolto una funzione cruciale nella storia dell’umanità. Nel caso del nostro Paese, da dove sono partite 30 milioni di persone, ha consentito di trovare rifugio in luoghi meno insicuri a migliaia di esuli politici dalla fine del Settecento evitando stragi vere e proprie, ha permesso di regolare un mercato del lavoro che sarebbe stato afflitto da un eccesso di manodopera devastante, ha permesso di sostenere una bilancia commerciale spesso passiva grazie alle rimesse degli emigranti che hanno, al tempo stesso, finanziato debito e spesa pubblica in fasi cruciali della vita del Paese.

Senza l’emigrazione non saremmo mai diventati una vera realtà economica e sociale. Ma queste considerazioni valgono per l’intero Pianeta; senza la mobilità della popolazione, le disuguaglianze sociali ed economiche sarebbero state ancora più profonde, perché lo slogan “aiutiamoli a casa loro” significa costruire muri e separazioni destinati a impoverire ancora di più le zone più fragili che hanno invece bisogno di circolazione di idee, risorse e persino di monete forti, senza le quali rischiano di disporre solo di carta straccia.

Tutto questo per dire che il tema della circolazione delle persone ha una centralità non riducibile a questioni quantitative, al calcolo degli “stock umani necessari”, alla verifica delle reali condizioni di assenza di libertà nei Paesi di provenienza. La comunità del futuro sarà, inevitabilmente, composita in ogni Paese del mondo e non accettarlo significherà solo creare tensioni insostenibili a livello globale e centinaia di migliaia di morti.

Forse trascurando questi elementi, il ministro Francesco Lollobrigida ha sostenuto che “il piano flussi è la strada giusta” perché “le richieste nei settori della produzione, dei trasporti, in agricoltura, nel terziario” sarebbero “quasi 500mila”. In altre parole, come si definiscono l’accoglienza e il fenomeno delle migrazioni? In base alle esigenze espresse dalle imprese che, sembra abbastanza intuitivo, manifestano “fabbisogni” di manodopera quanto più estesi possibile per disporre di un reclutamento, soprattutto per determinate mansioni, a bassissimo costo. Oltre alla miriade di fattispecie contrattuali, il mercato del lavoro italiano, che diventa per Lollobrigida il solo termine di riferimento, definito naturalmente dalla parte delle esigenze delle imprese, si infoltisce di migliaia di potenziali lavoratori posti in condizioni di estrema fragilità. Ancora una volta l’impressione è che la “politica” economica tenda a incentivare la competitività acquisita per effetto del brutale abbattimento delle retribuzioni.

Rispetto a ciò servirebbe un’ulteriore considerazione. I cittadini stranieri residenti in Italia -quelli che vengono etichettati come “immigrati”- sono 5,2 milioni, pari all’8,8% della popolazione italiana, mentre gli italiani residenti all’estero sono 5,8 milioni, pari al 9,8% della popolazione italiana. Si tratta di una percentuale che sta crescendo -del 2,7% in un solo anno- e che è composta in larghissima prevalenza di persone di età compresa fra i 18 e i 49 anni. Il motivo principale per cui lasciano il Paese è costituito dal livello medio delle retribuzioni italiane, 1.600 euro netti, che è uno dei più bassi d’Europa. Aumentare i livelli retributivi, forse, aiuterebbe a risolvere il tema dello spopolamento del Paese, a superare il presunto iato tra offerta e domanda di lavoro, farebbe crescere il reddito nazionale e renderebbe l’economia italiana meno dipendente dalle esportazioni. Questo solo per ragionare in termini numerici e senza fare riferimento alla necessaria giustizia sociale.

Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento

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