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Economia / Opinioni

Quel “pasticciaccio brutto” dei crediti da bonus edilizi compensati con gli F24

© Jessy Smith - Unsplash

Di fronte al dilagare delle proteste, in primis di banche e costruttori, il governo sembra intenzionato a fare una parziale marcia indietro rispetto al divieto di ogni tipo di cessione ipotizzando che i crediti possano essere “compensati” con i modelli presentati in banca. Una soluzione che desta perplessità, osserva Alessandro Volpi

La vicenda dei crediti generati dai bonus, a cominciare da quello “super” nell’edilizia, presenta sempre più aspetti critici. L’errore originario è stato quello di aver concepito un meccanismo di cessione dei crediti fiscali, maturati per effetto dei bonus, senza aver messo alcun limite e senza aver neppure avviato il minimo dei controlli. È accaduto così che nel giro di pochissimo tempo si è assistito alla creazione di una montagna di crediti, derivanti da lavori edilizi di cui non erano chiari i reali profili, che venivano “venduti” a più riprese, passando di mano in mano senza alcuna verifica.

Ha preso forma una specie di moneta parallela la cui circolazione era alimentata, oltre che dalla ricordata assenza di controlli, dalla disponibilità delle banche di accettare simili crediti senza porre, in concreto, alcun limite, in presenza peraltro di un loro chiaro beneficio per effetto del costo del servizio fatto pagare al creditore cedente. Da tale fenomeno sono scaturite due conseguenze molto pesanti.

La prima è stata costituita dal proliferare di una enorme quantità di truffe che hanno determinato la formazione di crediti fittizi, in assenza di lavori realmente prestati, mentre la seconda è rintracciabile nel rapido saturarsi della disponibilità delle banche ad accogliere ulteriori crediti. In termini quantitativi, questa moneta parallela ha raggiunto la cifra monstre di 120 miliardi di euro. A far precipitare la situazione sono intervenuti una serie di atti normativi che hanno sgonfiato la bolla. Un intervento iniziale è stato operato dal Governo Draghi che ha posto una prima serie di limiti al numero di cessioni creditizie e alle tipologie dei soggetti interessati, a cui ha fatto seguito un inasprirsi dei controlli soprattutto nei confronti delle banche che, sia per la citata saturazione sia per la paura di pesanti sanzioni, hanno smesso di accettare i crediti fiscali.

Il colpo di grazia al sistema delle cessioni è arrivato poi con il recente decreto del Governo Meloni che ha vietato ogni tipo di cessione per il futuro e non si è posto in alcun modo il tema dei crediti pregressi, ormai incagliati nei cassetti fiscali di molte aziende e di molti “creditori” italiani. Di fronte al dilagare delle proteste, in primis delle associazioni di categoria e delle banche, tuttavia, lo stesso governo sembra ora intenzionato a fare almeno parzialmente marcia indietro ipotizzando che i crediti fiscali possano essere “compensati” con gli F24 presentati in banca per il pagamento delle imposte. In altre parole i crediti si traducono in “crediti d’imposta” in primo luogo per le banche stesse che, di fatto, possono pagare con i crediti incagliati le proprie imposte e che possono utilizzare gli F24 dei loro clienti per “coprire” gli stessi crediti incagliati.

Una soluzione di questo tipo suscita più di un dubbio. In primo luogo, tradurre i crediti in minori imposte pagate significa un minor gettito per lo Stato difficilmente quantificabile perché non sarebbe agevole distinguere tra crediti veri e crediti più o meno fasulli, con il rischio di una riduzione delle entrate dello Stato ben superiore al valore dei crediti reali. Peserebbe inoltre, nell’ambito di questa soluzione, il minor gettito per gli enti locali, data la possibilità di presentare F24 anche per Imu e Tasi, e per altri enti previdenziali per i quali dovrebbe essere previsto un rapido ristoro. L’impressione è che la soluzione immaginata per il “pasticciaccio brutto” sia poco convincente e molto costosa. Come del resto sarebbe costosa l’ipotesi di una cartolarizzazione dei crediti incagliati di cui dovrebbe farsi carico la Cassa depositi e prestiti per la sua prerogativa di non pesare sulla quantificazione del debito pubblico nazionale: una soluzione “tecnica” che, però, costerebbe agli italiani una trentina di miliardi di euro, snaturando ulteriormente la natura della stessa Cassa.

Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento

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