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Scuola dell’infanzia parentale e comunità educanti: il racconto di un lavoratore
La libera associazione di adulti che, in chiave pedagogica, creano le occasioni affinché i bambini possano ritrovarsi a significare il loro stare insieme, in aula come in un parco, non può essere paragonata tout court agli istituti paritari o ad ambienti elitari, racconta Daniele Vanoli. Il dibattito su una certa “idea di scuola” continua
Questo scritto non vuole essere una risposta all’articolo di Renata Puleo, pubblicato su Altreconomia lo scorso 10 gennaio, bensì uno spunto diverso per porci in riflessione e scambio, elaborato dal punto di vista personale di un lavoratore di una scuola dell’infanzia parentale. Con l’auspicio che il dibattito richiesto dalla redazione possa proseguire.
Ad oggi è molto difficile comprendere in un’unica argomentazione le varie esperienze di scuole parentali, diffuse o meno sul territorio nazionale; poche sono le reti a supporto dell’agire quotidiano di queste realtà e sparuti sono gli enti accreditati dal ministero dell’Istruzione che tra le loro file annoverano formatori provenienti da quel mondo. È quindi problematico sostenere che dietro tutte queste scuole ci siano élite e legami sociali che mirano al solo discredito della scuola pubblica. La libera associazione di adulti che, in chiave pedagogica, creano le occasioni affinché bambini e bambine possano ritrovarsi a significare il loro stare insieme, in aula come in un parco, non fa il paio con le Fondazioni che animano le scuole paritarie godendo di finanziamenti pubblici tramite, per esempio, il meccanismo del Buono scuola che solo per l’anno scolastico 2022/2023 ha avuto, in Lombardia, da dove scrivo, una dotazione finanziaria di 24 milioni di euro.
Senza oneri per lo Stato (Art. 33 della Costituzione)? Per quanto riguarda l’esperienza “Casa della Lumaca” di Lumaca Ribelle, piccolo ente del privato sociale bergamasco del quale faccio parte, sì. L’associazione ha saputo sviluppare un modello economico che si regge sulle proprie gambe grazie anche a progetti altri, che non riguardano direttamente il servizio tre/sei anni: centri estivi e invernali, corsi di co-formazione per gli adulti, corsi di musica, di teatro e arte per i più piccoli e le più piccole. Progettazioni che spesso divengono vere e proprie co-progettazioni che coinvolgono l’I.C. di Carvico, Sotto il Monte e Villa d’Adda o i Comuni e l’Azienda speciale dell’Isola bergamasca (un territorio che si estende tra l’Adda, le pendici del Monte Canto, la Valle San Martino e la periferia della città di Bergamo).
La nostra scuola è un luogo a cui tornare per mettere in fila le esperienze che, di giorno in giorno, proponiamo ai bambini e alle bambine. Proprio come scrive Renata Puleo, anche la nostra aula “[…] è il nostro magazzino, erbario e biblioteca ma, soprattutto, il porto intimo dove ci raccogliamo a discutere, a scrivere, a disegnare, a litigare e a risolvere conflitti”.
Non siamo così dissimili dai maestri e dalle maestre che lottano per una scuola che, come dicono spesso gli attivisti e le attiviste di Priorità alla Scuola, possa essere ricostruita dal basso proprio perché, più spesso di quanto si pensi, proveniamo da percorsi accademici e professionali che hanno avuto come sbocco quello della scuola pubblica. Nel nostro caso, ad esempio, per almeno dieci anni, abbiamo incontrato il variegato mondo della scuola pubblica avendo scelto come prima opzione di carriera quella dell’educatore.
Siamo stati in tante classi, di primaria soprattutto, da esperti di educazione ambientale, da assistenti educatori scolastici e da supplenti con la messa a disposizione e le Gps; proprio in quei frangenti abbiamo toccato con mano le grandi potenzialità dell’istituzione scolastica pubblica: documentazione, valutazione descrittiva, orizzontalità nei processi decisionali.
Ma non possiamo negare anche le storture che abbiamo vissuto, la scarsa preparazione e l’inadeguatezza di taluni che si sono ritrovati negli ultimi anni nel mondo della scuola con un diploma magistrale, ottenuto prima dell’anno 2001/2002, e che non si erano mai pensati come professioniste e professionisti in quell’ambito. Ci siamo scontrati con le pratiche di esclusione ai danni di alcuni alunni e dei loro nuclei familiari di origine che ben emergono anche dall’indagine, condotta dalla Federazione italiana per il superamento dell’Handicap, sull’uso efficace dei gruppi di lavoro per l’inclusione nella quale si evince per esempio che, su oltre 1.400 questionari, nel 20% dei casi il Gruppo operativo di lavoro per l’inclusione (Glo) non è stato nemmeno convocato e che nel 23% dei casi i Piani educativi individualizzati (Pei) sono stati redatti senza il coinvolgimento della famiglia o degli adulti di riferimento del minore.
E ancora abbiamo osservato come nella scuola pubblica negli anni dell’emergenza sanitaria e sociale, i ministri Azzolina, Bianchi e Valditara, se da un lato hanno garantito l’acquisizione dei dati scolastici sensibili a grandi soggetti privati quali Google e Microsoft, dall’altro non sono stati in grado di pensare al benessere degli studenti e delle studentesse che hanno subito le restrizioni pandemiche. La ricerca “Chiedimi come sto. Gli studenti al tempo della pandemia” stima come, su un campione di ricerca di 30mila casi, durante la pandemia siano aumentate soprattutto le emozioni che rappresentano un effetto negativo sulla salute mentale degli studenti di scuola secondaria di secondo grado e universitari: in particolare la noia (aumentata per il 68% degli studenti), la demotivazione (66,2%), la solitudine (62,7%) e l’ansia (59,7%). Questi aspetti ci preoccupano e ci interrogano, come adulti, sul ruolo di riduzione degli ostacoli di ordine economico e sociale che la scuola, attraverso l’Articolo 3 della Costituzione, dovrebbe fare proprio.
Ciò ci ha spinti a iniziare a costruire un Progetto che avesse una tesi forte, ovvero, “Come un servizio educativo abita un territorio” (per noi anche oggetto di tesi universitaria) utilizzando la nostra classe come uno tra diversi casi di indagine, intendendo il territorio e la comunità educante che, potenzialmente, lo abita come prodotti sociali che mutano e sono frutto delle interrelazioni che li attraversano. Inoltre, proprio per fare in modo che un’esperienza parentale potesse sostenere la scuola pubblica (e non porsi in contrasto con essa), abbiamo iniziato, attraverso un approccio che noi vorremmo diventasse la base di un futuro patto educativo di comunità, a convocare gruppi di lavoro condivisi tra enti del Terzo settore e istituzioni educative formali e caffè pedagogici (luoghi di libero scambio di pratiche pedagogiche moderato da un professionista). Spazi nei quali spicca la funzione pubblica dell’insegnante in relazione a tutte le altre alterità professionali e non, che vivono in un determinato luogo, con le quali entriamo in contatto solo facendo qualche passo al di fuori dalle nostre classi.
Perché allora la scuola dei “fricchettoni” e delle élite si interessa della scuola dei figli e delle figlie dei proletari (ovviamente è una generalizzazione)? Forse perché solidarietà e mutualismo sono politiche che, nella nostra “Casa della Lumaca”, cerchiamo di far vivere mettendo a disposizione spazi e saperi non solo per i nostri associati, bensì per chi ha bisogno di un luogo nel quale studiare, sperimentare, accogliere e ripensare la scuola dal basso una scuola che dovrà essere necessariamente pubblica.
“Vedo ad esempio una grande contraddizione: ci sono tante o poche famiglie che si organizzano fuori dalla scuola statale? –si è chiesto Luca Fagiano, attivista del movimento per il diritto all’abitare romano e maestro dell’Asilo del bosco di Ostia Antica-. Se sono poche, l’allarmismo di alcuni sarebbe ancora più ingiustificato. Se sono tante, visto che organizzarsi fuori dalla scuola pubblica vuol dire in linea di massima per un genitore mettere ancora più tempo e più impegno nell’educazione dei figli, bisognerebbe chiedersi: quali sono le ragioni profonde che li spingono a queste scelte? E forse bisognerebbe porsi queste domande pensando che dietro e dentro queste scelte ci sono vite reali, gioie e problemi, intenzionalità che non conosciamo e che non possiamo metterci sul piedistallo e giudicare, ma dobbiamo innanzitutto comprendere”.
Daniele Vanoli è maestro di scuola dell’infanzia, dal 2019 è membro del team di Lumaca Ribelle. Attivista e membro del direttivo del circolo Arci Spazio Condiviso di Calolziocorte (LC) è, dal 2018, consigliere d’opposizione nel Comune di Calolziocorte.
L’Associazione Lumaca Ribelle è un’associazione di promozione sociale con sede a Carvico che si occupa di educazione, cultura e formazione sul territorio della provincia di Bergamo. Nasce nel 2019 dal desiderio dei soci fondatori di diffondere una cultura pedagogica ispirata alla pedagogia della lumaca di Gianfranco Zavalloni: lentezza, valore delle relazioni, costruzione delle competenze nel rispetto dei tempi di ciascun bambino, importanza dei legami con la natura, l’arte e la cultura. L’Associazione vuole essere un punto di riferimento nel territorio per realizzare esperienze e servizi innovativi che rientrano in questa cornice educativa.
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