Non c’è dubbio che la presenza di un immaginario di “scientificità” garante di decisioni sagge cui obbedire con fiducia è stata una delle protagoniste assolute della gestione della pandemia. In Italia, ma non solo. E i rappresentanti di questa scientificità “su misura” del tipo di rischio cui offrire risposte sono stati, nelle più varie vesti, esponenti della “comunità scientifica” più strettamente medico-sanitaria. L’unico punto su cui tuttavia emergeva un accordo, che aveva la scientificità del buon senso, era la necessità di un “dopo” in cui le regole e gli investimenti “almeno” in sanità erano da cambiare. La scientificità più cogente era quella dell’evidenza dei morti e delle terapie intensive in affanno: troppi, evitabili, cui rispondere al di là della “pietà” con decisioni e provvedimenti coerenti con i buoni propositi di una “scientificità al servizio della vita-dignità delle persone”.
Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) è l’unico segno certo e conc
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