Diritti / Reportage
Le vite congelate lungo la rotta dei Balcani, nel cuore dell’Europa
Dalla Grecia meridionale ai campi a Nord di Derveni. Da Gevgelija, in Macedonia, ai parchi di Belgrado, fino al confine ungherese. Il nostro viaggio con i migranti siriani, palestinesi e iracheni, costretti a consegnarsi tra le mani dei trafficanti
“Quando aprono le frontiere?”. Lo chiede Amar, una donna curdo-siriana. Da maggio vive nella tenda numero 4 nel campo profughi di Derveni, nel Nord della Grecia. Ha 40 anni ed è in attesa di essere chiamata assieme alla sua famiglia per il colloquio con l’Asylum service. Dopo gli “accordi” di marzo tra l’Unione europea e la Turchia, Amar, come altre 57mila persone, è rimasta bloccata in Grecia. L’obiettivo degli “accordi” era quello di arginare l’inarrestabile flusso di profughi -oltre 1 milione di persone, soprattutto siriani, afghani e iracheni- che in più di un anno è passato lungo la Western Balkan Route.
La nuova condizione di vita nella quale sono ospitati Amar, suo marito e i suoi tre figli si discosta poco da Idomeni, la “Dachau dei giorni nostri”, il campo informale al confine con la Macedonia, dove in 14.000 hanno aspettato per 3 mesi che il confine riaprisse, in una tendina da campeggio, senza bagni, con poca acqua e poco cibo.
Il campo di Derveni rispetto ad altre strutture analoghe del Paese presenta due aspetti positivi: da una parte ospita “solamente” 700 persone anziché le 1.500 di media degli altri campi, dall’altra il gruppo dei curdo-siriani ha mostrato una grande capacità di auto-organizzazione culminata in una collaborazione positiva sia con i militari che gestiscono il campo, sia con le poche associazioni autorizzate a operare nella struttura. In compenso l’odore delle fogne a cielo aperto invade l’aria, penetra nelle narici e si diffonde all’interno dello spazio in cui viene distribuito il cibo precotto, oltre che nel capannone industriale e nelle tende canadesi montate al suo interno. Amar versa il caffè solubile. La sua speranza è che il confine possa riaprirsi come era accaduto nei mesi invernali, quando le frontiere tra la Macedonia e la Grecia a singhiozzo si aprivano e chiudevano, permettendo a poche decine di persone al giorno di attraversare legalmente, senza dover finire necessariamente nelle reti dei trafficanti che, negli ultimi mesi hanno potuto muoversi indisturbati lungo la spina dorsale dei Balcani, illudendo le persone di essere in salvo in Austria e abbandonandole, invece, alla periferia di Belgrado.
Grecia meridionale
“Quando aprono le frontiere andrò in Spagna e poi da lì partirò e raggiungerò la California”. Johnny, come si fa chiamare lui, anziché Mohamed, è un ragazzo: ha appena festeggiato 22 anni a Sounio, un campo profughi in una pineta di fronte al mare. Gli chiedo di dove sia e mi risponde di essere un palestinese che viveva in Siria. Rientra nella categoria dei single men, uomo che viaggia solo senza famiglia, quindi uno degli ultimi nelle liste delle priorità dei ricollocamenti e delle richieste d’asilo che deve smaltire il governo greco. È scappato con suo cugino per evitare il servizio militare e la guerra, motivazione che non sarà sufficiente per ottenere lo status di rifugiato. Ha imparato l’inglese da solo, in questi mesi. Johnny è stanco di stare al campo, si sta informando con amici per provare ad attraversare illegalmente, ma non ha abbastanza soldi per pagare i trafficanti. A una persona come lui, sola e con scarse possibilità di rimanere in Grecia, vengono chiesti 3mila euro per arrivare al confine con l’Ungheria.
I suoi vicini di bungalow sono una famiglia siriana con 6 figli. La più grande, Kawala, ha 10 anni e per muoversi ha bisogno della carrozzina. Da bambina è stata colpita da poliomielite, avrebbe bisogno di fisioterapie e cure adeguate, invece di dormire su una brandina con i suoi fratellini. Il più piccolo, Ahmad, ha attraversato il mare sul gommone a febbraio quando aveva appena compiuto un mese. È nato prematuro, mi racconta sua mamma, durante una tregua tra un bombardamento e l’altro. In questo momento non hanno fretta come gli altri che le frontiere riaprano: non sanno nemmeno dove potrebbero andare in Europa, e a fare cosa. La loro unica certezza: vivere a Damasco era diventato impossibile.
Macedonia
“Abbiamo sentito che riapriranno presto le frontiere” mi dice Aisha, irachena, nello spazio per mamme e bambini del campo di Gevgelija. Il centro di transito è alla periferia della città, ogni famiglia alloggia in un’unità abitativa Ikea, con aria condizionata, letti, e tavolini. Un paradiso rispetto ai campi sovraffollati della Grecia o ai parchi pubblici di Belgrado. Al campo sono ospitate circa 150 persone, metà delle quali bambini. Ci sono siriani, iracheni e una piccola minoranza afghana.
Aisha è stata trovata dalla polizia mentre con la famiglia cercava di raggiungere la Serbia, dopo aver attraversato illegalmente i confini pagando 1.500 euro a testa ai trafficanti. Poiché erano donne con bambini non sono state rimandate in Grecia come viene normalmente fatto -pestaggi di rito inclusi- con i single men.
Campo di transito, viene ancora chiamato questo centro, perché la Macedonia non vuole ufficialmente ospitare profughi nei suoi confini, ma di fatto il piccolo manipolo di persone che lo abita è bloccato da 6 mesi all’interno delle recinzioni.
Aisha sta studiando inglese e tedesco con i volontari del centro, si impegna al massimo perché ha sentito dire che le frontiere riapriranno e che gli accordi di marzo verranno annullati. A mezza voce, un funzionario delle Nazioni Unite sostiene che questo scenario non è del tutto immaginario e che la Macedonia sta già predisponendo un rafforzamento del confine con l’appoggio della polizia austriaca.
Serbia
“Aprite le frontiere!” recitano i cartelli in inglese, arabo e serbo attaccati alle recinzioni arancioni che chiudono l’accesso alle aiuole del parco di fronte alla stazione dei bus di Belgrado. Il Comune sta cercando in maniera soft di rendere più difficile la permanenza ai profughi nel centro della città, togliendo loro gli spazi in cui accamparsi – come i parchi – e i servizi che le organizzazioni umanitarie offrono loro. L’intento è nascondere all’opinione pubblica il costante transito di persone che ha fatto della Serbia il punto di incontro e snodo principale di informazioni e traffici, su una rotta migratoria ufficialmente chiusa. Disincentivare la permanenza in centro città, spingendo le persone ad andare nel centro per richiedenti asilo di Krnjača, in periferia, significa non dover rispondere a domande scomode.
È così che da agosto 2015 va avanti la tensione tra le istituzioni e i movimenti di cittadini e associazioni che hanno dato vita al Miksalište e all’Info Park, due punti di supporto e distribuzione di cibo e vestiti ai profughi di passaggio nella capitale serba.
Milica, operatrice di Caritas nel parco, non si fa spaventare dagli ultimatum che inviano Comune e polizia serba: ridendo, mi racconta di come abbia distribuito zuppe calde e colazioni dal retro del furgoncino. L’unico scopo dei profughi è raggiungere la frontiera con l’Ungheria, a Kelebija o Horgoš. Da lì solo 30 al giorno potranno passare il confine e chiedere asilo al governo magiaro. Altri, la maggioranza di loro, proverà a passare illegalmente nei boschi. Tanti, una media di quasi 150 persone al giorno nell’ultimo mese, vengono catturati e rispediti nei campi di transito nel nord, come Subotica e Šid, dove restano alcuni giorni per poi tornare a Belgrado, prendere nuovi contatti e ritentare il passaggio.
Dall’inizio dell’anno alla metà di settembre, 165mila persone hanno attraversato il Mediterraneo e raggiunto la Grecia. Nel 38% dei casi si trattava di bambini (dati UNHCR)
Confine ungherese
“La frontiera è di nuovo chiusa” dice a bassa voce Jamal. Afghano, 25 anni, studente universitario, sta aspettando da un mese di poter entrare nel container azzurro dietro il muro di filo spinato alto 4 metri tirato per 175 chilometri lungo il confine magiaro. Dentro quel container possono entrare solo due maschi al giorno tra le 30 persone che hanno atteso il loro turno per fare richiesta di asilo in Ungheria. È in questo cubo di lamiera -sul tetto stanno appostati soldati armati di fucile e visore notturno- che persone come Jamal potrebbero aspettare sino a 28 giorni affinché la loro pratica venga esaminata, per essere poi di nuovo respinti. Per scoprire i due campi informali tra Serbia e Ungheria si possono seguire i cartelli con su scritto “Idomeni”. Sono quasi mille le persone in attesa che dormono in tende e rifugi di rami e foglie, senza che le organizzazioni umanitarie possano far altro se non la distribuzione quotidiana di acqua e cibo. Resistono e aspettano.
Chi ci ha già provato, chi è stanco di aspettare, chi sa che la sua richiesta verrà respinta, attraversa di notte dai varchi nella recinzione. Da luglio l’Ungheria ha rafforzato i controlli che permettono di deportare in Serbia chi ha passato illegalmente la recinzione e viene trovato entro 8 chilometri dal confine. Jamal non sa ancora cosa fare. Non ha soldi per pagare i trafficanti, ha paura dei violenti pestaggi e dei cani della polizia ungherese, ma sa anche che sta per arrivare il freddo e che l’Ungheria il 2 ottobre andrà a votare un referendum sul piano europeo di ridistribuzione dei migranti, chiudendo definitivamente l’ultima frontiera ancora da attraversare, prima del sogno chiamato Europa.
© riproduzione riservata