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Diritti / Reportage

Rotta balcanica: chi paga la stagione della normalizzazione in Bosnia ed Erzegovina

Uno dei locali non utilizzati del Dom Penzionera, un edificio abbandonato usato come squat lungo il fiume Una, a Bihać, Bosnia ed Erzegovina. Febbraio 2021 - © Chiara Fabbro

I centri gestiti dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni sono sovraffollati e la polizia continua ad evacuare piccoli gruppi e famiglie che vivono nei precari squat delle periferie, senza un attimo di respiro. I volontari che danno una mano sono un bersaglio. Il reportage a tre mesi dall’incendio del campo di Lipa

“Siamo rimasti per un paio di giorni dentro a un casolare ad aspettare che la tormenta passasse. Poi abbiamo deciso all’unanimità di provare ad andare avanti perché avevamo quasi finito le scorte di cibo. Non so quanto avessimo camminato, sulla neve anche poche centinaia di metri sembrano passi infiniti. L’unico gps acceso ci segnalava di essere a cinque chilometri dal confine con la Slovenia. E poi, tutto è finito. Hanno seguito le nostre orme, ovvio. Ci hanno presi e riportati indietro, eravamo partiti da una settimana”.

Asnan non ha nemmeno 24 anni e una figlia di due e mezzo che non ha mai visto di persona perché è dovuto scappare dal Pakistan un paio di mesi prima della sua nascita. La guarda crescere attraverso lo schermo dello smartphone, quando riesce ad averne uno da utilizzare in condivisione coi suoi compagni. Vive in una delle numerose tendopoli attorno all’area di Bihać, una sorta di piccola comunità autogestita con necessità di qualche supporto esterno ma che si è saputa dare delle regole di gestione e convivenza. Una suddivisione dei ruoli per decidere giorno per giorno chi cucina, chi pulisce, chi fa la guardia per evitare le intrusioni degli Ali Baba (ladri) o avvisare dell’arrivo di persone estranee e polizia. Ed è anche per questo motivo, l’organizzazione che questi gruppi riescono ad accordare per la comune sopravvivenza, che vengono continuamente sgomberati.

Chi può se ne va il prima possibile e lascia il posto a qualcun altro. Ma servono soldi ed energie che con i continui respingimenti e le condizioni di stento, spesso mancano. Ha già provato sette volte in circa un anno Asnan. “Mi stanno venendo i capelli bianchi e le rughe, tante rughe quanti sono i tentativi. Questa vita ti invecchia più velocemente”. Tra i suoi compagni qualcuno è riuscito a mettere piede in Italia tra l’estate e dicembre 2020, qualcun altro è arrivato in Austria nello stesso periodo, mentre altri hanno già tentato la via per la Romania, venendo però rispediti in Serbia e ora percorrono nuove vie.

Con il parziale innalzamento delle temperature di inizio marzo sono ricominciati i passaggi da Belgrado o da Preševo alle zone limitrofe alla Drina che segna il confine tra Serbia e Bosnia ed Erzegovina. Tuzla ricomincia allora ad essere per il quarto anno consecutivo una tappa fondamentale della rotta per i Balcani.

Un ragazzo afghano controlla il cellulare in una vecchia fabbrica usata come squat alla periferia di Bihać, Bosnia ed Erzegovina. Febbraio 2021 – © Chiara Fabbro

In questo periodo dell’anno il cielo ha una costante coltre color giallastro, trattandosi di una delle aree col più alto tasso di inquinamento di tutta Europa, e l’aria qui ha sempre un odore di naftalina carbonizzata che si attacca ai vestiti. Poche decine di persone vivono per brevi periodi negli appartamenti che si riescono ad affittare grazie alla mediazione di abitanti autoctoni, tanto in città quanto nei piccoli paesi limitrofi. Una Ong cattolica locale versa la maggioranza del contributo di locazione, ma la gran parte del sostegno materiale arriva dalle moschee e dai volontari. Nei vari squat sparsi per la città in edifici abbandonati, caseggiati dismessi, ex fabbriche o vecchi ed arrugginiti vagoni del treno trovano riparo un centinaio di persone. Ma tutti temono l’arrivo della primavera, i tanti arrivi e il sostegno che non vogliono far mancare, ma dovendo fare i conti con la stanchezza degli anni precedenti.

La stazione degli autobus, dove tra novembre 2019 e gennaio 2020 si formò un’enorme tendopoli in cui vivevano circa mille persone, rimane il crocevia principale dove vengono fatte distribuzioni di cibo dalla Croce Rossa e Merahmet (il corrispettivo della Caritas islamica). La via prosegue in autobus per Doboj e Banja Luka fino a Bosanska Otoka, dove la polizia fa scendere i passeggeri secondo uno screening etnico; da lì si continua a piedi o in taxi verso Bihać o in direzione di Velika Kladuša. I collegamenti diretti tra Tuzla e Bihać sono stati interrotti sia in bus sia in treno, proprio per evitare facili spostamenti ai nuovi arrivi, creando però enorme disagio a tutta la popolazione bosniaca.

Da Tuzla inoltre passano anche tanti in direzione contraria: stanchi dopo i continui respingimenti attorno al confine del cantone Una-Sana da parte dei poliziotti croati e le condizioni di vita pessime tanto negli squat quanto nel campo di Lipa, tornano verso Ovest e ripassano, o ci entrano per la prima volta se erano arrivati dal Montenegro, in Serbia per tentare dalla Romania.

Secondo i report UNHCR, la polizia romena sta respingendo a migliaia e numerosi tornano o arrivano in Bosnia non prima di aver provato a raggiungere Timisoara. Le persone sono sempre più stanche e affannate. Tutte. Sia chi è costretto a spostarsi di continuo e a vivere comunque in posti indegni, sia la cittadinanza.

Un gruppo di persone migranti si scalda intorno al fuoco in un accampamento di tende alla periferia di Bihać, Bosnia ed Erzegovina. Febbraio 2021 – © Chiara Fabbro

Questo è il quarto anno di attivazione in un contesto meno sotto il controllo delle forze dell’ordine di quanto lo possa essere Bihać ma altrettanto dal clima pesante. Si sono verificati furti e violenze plateali, stressati dalla stampa per generalizzare la pericolosità della popolazione migrante. Tema evidentemente pregnante che ha portato a una diffusa diffidenza, a discorsi d’odio e a far finire diversi volontari nel mirino della macchina del fango.

Alcuni hanno mollato proprio per lo stress derivato dallo stigma sociale cui sono stati sottoposti. Qualcuno ha scelto di andare a lavorare in Germania in un supermercato Lidl piuttosto che farsi assumere da qualche Ong e trasformare un’azione di cittadinanza attiva in una occupazione. “Se vogliono fare investimenti in Bosnia ed Erzegovina per lo sviluppo e la creazione di posti di lavoro, lo facciano e basta. Vogliono davvero tenere qui tutte queste persone perché così ci si costruisce attorno lavoro? Lo dico perché se diamo aiuto come volontari rischiamo la multa, se invece lo facciamo per una organizzazione veniamo pagati. È assurdo”, commenta poi Hadis, ex operaio in fabbrica e tra i protagonisti dei Plenum durante le proteste del 2014.

“Guardiamoci attorno. Se ci si siede in un bar o in ristorante la discussione quasi sempre cade su questo tema. La Bosnia sta pagando l’enorme scotto di essere un Paese giovane in merito all’impatto delle migrazioni contemporanee e quindi ogni tipo di dinamica si sta verificando soprattutto per la scarsa informazione e conoscenza del fenomeno: anche persone insospettabili, mie vicine di casa, con un discreto livello di istruzione, cadono in razzismi, generalizzazioni e pregiudizi, in particolare verso giovani provenienti dal Marocco e dall’Algeria, Paesi con situazioni ben diverse tra loro ma assimilati per area geografica. Si sa ben poco dei Paesi d’origine e si pensa che al massimo i siriani abbiano qualche valida motivazione per esserci. Questo deve cambiare”.

In Bosnia ed Erzegovina sta salendo nelle ultime settimane la paura per il Covid-19. Sarajevo è stata la prima ad essere posta in lockdown con obbligo di indossare le mascherine e coprifuoco dalle 21, misure poi adottate in tutta la Federazione di Bosnia ed Erzegovina. Chi può cerca posto in qualche ostello o stanza privata, laddove si trovino locatori disponibili perché, sebbene in questa zona sia permesso affittare a stranieri richiedenti asilo o transitanti, pochi accettano nonostante la crisi economica a seguito della pandemia.

In questa situazione di generale difficoltà, ancora una volta chi è più marginalizzato viene lasciato ancor più solo. Mentre i campi gestiti dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni a Ušivak e Blažuj rimangono sovraffollati, la polizia continua ad evacuare i piccoli gruppi nei vari squat distribuiti soprattutto nelle periferie della città, non concedendo loro un attimo di respiro. Ognuno ha due o tre posti conosciuti dove potersi spostare in caso di sgombero ma chiaramente è stressante fisicamente e psicologicamente, in considerazione anche delle temperature. “È la stessa strategia che vediamo da anni a Calais”, racconta una volontaria belga spesso attiva nel Nord della Francia. “Dall’incendio e lo sgombero della jungle nel 2015, la caccia all’uomo è quotidiana, ma nei media europei ormai non se ne parla quasi più, come del resto nemmeno di quel che è successo a Moria a settembre 2020 e delle conseguenze per migliaia di persone ancora nell’isola”.

Siamo a fine marzo e sono passati tre mesi da quel 23 dicembre 2020 quando il campo di Lipa è stato dato alle fiamme. Oggi circa mille persone vivono all’interno di tende, sotto la gestione del Servizio affari esteri. Vi è stata una parziale ristrutturazione, ma non sono presenti letti a sufficienza per tutti, i pasti scarseggiano, la temperatura notturna anche ora scende sotto lo zero e il luogo è e rimarrà distante circa 30 chilometri da Bihać. C’è un totale assenza di socializzazione, quindi. “Mi ricorda il campo dove si trova un mio amico con la famiglia, in Grecia, vicino ad Atene. Mi ha mandato le foto e almeno lì ci sono i container. Dobbiamo star qui pregando per vivere in un container, questo è lo stato a cui ci stanno portando”, dice Eshan, trentaquattrenne di Jalalabad, Afghanistan.

Un altro degli abitanti del campo ha scritto una lettera rivolta ai parlamentari europei nella quale esprime tutta l’urgenza di un loro intervento per portare reali cambiamenti nella vita delle persone bloccate in Bosnia ed Erzegovina ed in particolare nel Cantone Una-Sana. Come riportato nello scritto pubblicato da Infomigrants, continuano dopo mesi a mancare le condizioni minime (già calibrate su standard minimi in caso di emergenza), ci sono solo 12 bagni chimici, l’acqua calda non arriva alle cinque docce presenti, non c’è acqua corrente potabile e spesso rimangono a corto di quella in bottiglia in attesa di nuovi approvvigionamenti: sono costretti ad attendere di ricevere, sempre. E queste sono le condizioni a marzo 2021 del campo che, come dichiarato dal primo ministro del Cantone Una-Sana Mustafa Ružnić, dovrebbe diventare il principale campo di tutta l’area.

Nel frattempo il 5 marzo la polizia, dopo aver effettuato un’azione simile il 24 febbraio negli squat di Bihać, ha sgomberato i caseggiati abbandonati al villaggio di Bosanska Bojna in prossimità di quel confine croato dove nel mese di gennaio quattro europarlamentari italiani erano stati bloccati nella loro azione di monitoraggio. Centoquindici persone componenti di trentacinque famiglie, con almeno cinquanta bambini sono state evacuate e state destinate ai campi di Bihać, il Sedra e il Borići. Quest’ultimo però, proprio quel giorno, è stato posto in quarantena per i primi di riscontri di positività al Covid-19. In sostanza per diversi giorni queste persone sono state lasciate a dormire all’aperto in tende prima di poter esser registrate all’interno; una buona parte di esse ha però trovato invece modo di far ritorno al punto di partenza insieme ad altre famiglie respinte a metà marzo dalla Slovenia. In seguito anche il Sedra è finito in quarantena per l’emersione di positivi ai test sul Covid-19, sia tra gli abitanti sia tra operatori delle organizzazioni, e dentro allo stesso Lipa sono emersi casi.

Un giovane uomo del Pakistan nella tenda che condivide con altre persone migranti alla periferia di Bihać, Bosnia ed Erzegovina. Febbraio 2021 – © Chiara Fabbro

Nel Cantone Una-Sana si continua a non poter affittare una stanza in un ostello, in un hotel e nemmeno un appartamento da privati registrati. Le uniche soluzioni sono i campi dove però, come successo il mese scorso in occasione degli sgomberi, vengono bloccati gli accessi per mancanza di spazio. Rimangono quindi solo le situazioni di informalità come squat e jungle. Luoghi appunto non ufficiali ma che in qualche modo vengono paradossalmente riconosciuti proprio attraverso il divieto di entrarvi e dar sostegno alle persone se non per gli autorizzati a farlo. La polizia, facendo leva sulle normative di prevenzione al Covid-19 introdotte già dal marzo 2020, blocca le squadre mobili anche di organizzazioni riconosciute, soprattutto ferma chi non è bosniaco anche se lontano dagli accampamenti, chiedendo se la motivazione della presenza in Bosnia ed Erzegovina sia legata ai migranti, quasi a voler far confessare una colpa.

In tutto il Paese c’è un costante clima di fermento, anche nell’attesa, una tendenza al movimento. Nessuno vuol rimanere, soprattutto non con questi presupposti, e nessuno pare voglia permetterlo se non a condizioni inaccettabili. E in questo contesto si amplia a macchia d’olio la zona grigia dove trovano spazio d’azione la tratta ed il traffico di esseri umani. A seguito di una recente visita Valiant Richey e Margareta Cederfelt, rispettivamente coordinatore per il contrasto al traffico di esseri umani e presidentessa del comitato ad hoc sulle migrazioni per conto dell’OSCE, in riferimento a quanto hanno riscontrato, in particolare nel Cantone Una-Sana, hanno dichiarato: “Fino a che persone vulnerabili verranno lasciate in condizioni pericolose, i rischi di traffico aumenteranno. Identificare e proteggere le vittime della tratta e del traffico è un obbligo legale e un dovere umanitario”. Pare invece si sia ancora ben lontani dal tutelare queste persone, tanto che le partenze verso il confine croato continuano, non essendoci altre possibilità di spostamento concesse dall’Unione europea. Sul cui territorio continuano inesorabili le morti: nelle ultime settimane due tragici eventi sono stati riportati dai media locali, a ricordarci quanto siano pericolose anche le rotte via terra.

Giovedì 4 marzo un gruppo in cammino per la foresta di Saborsko, in Croazia, è finito in una zona minata ed un uomo ha perso la vita nell’esplosione di uno ordigno, tra i ventimila ancora presenti nel sottosuolo a 25 anni dalla fine del conflitto in quest’area dei Balcani. La mattina del 22 marzo, invece, vicino alla cittadina croata di Okučani, a meno di 20 chilometri dal confine con la Bosnia ed Erzegovina, un camion con targa serba che trasportava mangimi si è capovolto provocando la morte di quattro delle ventiquattro persone nascoste all’interno e ferendone altre undici, di cui due sono state ricoverate in gravi condizioni all’ospedale.

Siamo a cinque anni dal cosiddetto “accordo” tra Unione europea e Turchia del 2016. Con la chiusura definitiva del corridoio legalizzato lungo la rotta balcanica e con l’esponenziale aumento dei respingimenti e della violenza ai confini interni ed esterni dell’Ue, come riportano mensilmente il network Border Violence Monitoring, il Danish Refugee Council e la stessa UNHCR, sempre più persone, anche famiglie con bambini, si trovano costrette a mettere a rischio la propria vita nel tentativo di raggiungere l’Europa.

Sono tutte situazioni già accadute, che stanno continuando a succedere e aumentano le persone a subirne le conseguenze perché le strade della banalità del male percorrono diversi itinerari che si diramano subdoli, passando dalle dichiarazioni di emergenza alla normalizzazione. Per questo motivo, quindi, vi è una costante urgenza di non chiudere gli occhi e pretendere reali cambiamenti da tutti i livelli istituzionali.

Diego Saccora, operatore sociale, è membro dell’associazione “Lungo La Rotta Balcanica”. È co-autore del libro “Lungo la rotta balcanica. Viaggio nella storia dell’umanità del nostro tempo”, infinito edizioni (2016) nonché del dossier “La rotta balcanica” a cura della rete “RiVolti ai Balcani”

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