Diritti / Reportage
Reportage tra i “nuovi” respinti dalla Croazia verso i campi della Bosnia ed Erzegovina
Da fine marzo la polizia croata ha attivato una “inedita” pratica di rintraccio, detenzione ed espulsione collettiva delle persone in movimento verso la Bosnia, trasportandole in bus alla frontiera o ai centri di detenzione. Il tutto con una parvenza di formalità. Le Ong ne denunciano la palese illegittimità. E la complicità europea
Con l’inizio del Ramadan, Riaz (nome di fantasia) ha interrotto i tentativi di attraversare il confine verso la Croazia. Si trova nel campo di Lipa, centro di transito ma soprattutto di detenzione nel Nord-Ovest della Bosnia ed Erzegovina, nel Cantone di Una-sana. Si è svegliato tardi, fa freddo e ha una sciarpa nuova con i colori della vecchia bandiera afghana. “Qui hanno riportato tante persone dalla Croazia. Stanno arrivando autobus pieni”, dice.
Da marzo, infatti, le autorità del cantone bosniaco confermano che i campi di Borici e Lipa stanno ricevendo persone espulse collettivamente dalla Croazia sulla base di accordi bilaterali stipulati proprio con la Bosnia. Rintracciate sul territorio croato, le persone in movimento vengono detenute per poi essere trasportate in autobus al confine e consegnate alla polizia bosniaca (l’ha denunciato il Border violence monitoring network, ripreso in Italia dalla rete RiVolti ai Balcani).
“Abbiamo parlato con una famiglia curda riammessa nel campo per famiglie di Borici, a Bihać: fermati vicino Slavonski Brod, in Croazia, sono stati portati in un seminterrato e poi dopo qualche giorno in un magazzino dove hanno ricevuto un foglio di espulsione di un anno dall’area economica europea, con la minaccia di 18 mesi di detenzione”, racconta Marta Aranguren, dell’organizzazione No Name Kitchen. Anche Ines dell’associazione locale Kompas 071 descrive dinamiche simili: “Diversi testimoni riferiscono di aver dormito a terra su cartoni per giorni, senza cibo e poca acqua, alcuni minacciati con cani in caso di lamentele”. Esprime la sua preoccupazione: “Improvvisamente è apparso un foglio che legalizza ogni sopruso: uno per far pagare il trasporto della riammissione o le notti in detenzione e uno che giustifica la confisca di telefoni o oggetti personali”.
Si tratta di riammissioni dalla parvenza solo formale che a differenza dei respingimenti praticati per anni (e ancora oggi) cercano di presentarsi con una base legale. Milena Zajović Milka, attivista dell’organizzazione Are you syrious? e del Border violence monitoring network spiega che “l’ordine di espulsione dall’area economica fa riferimento alla legge sugli stranieri della Croazia, mentre la riammissione si basa su un accordo bilaterale tra due Paesi, che non può prevalere sulla Convenzione di Ginevra e su altre dichiarazioni internazionali”.
Le criticità sono diverse. Non sempre è stata fornita una copia dei documenti di riammissione nella lingua delle persone espulse, né sarebbero stati presenti traduttori. In più non è chiaro come venga dimostrato che le persone riammesse siano entrate dalla Bosnia ed Erzegovina. “Dalle testimonianze sembra che non abbiano avuto opportunità di chiedere asilo, né di poter far ricorso alla decisione di riammissione, come previsto invece dalla stessa Legge sugli stranieri croata”, spiega Silvia Maraone operatrice di Ipsia Acli, organizzazione che opera dentro il campo di Lipa.
“In sintesi sono tre le fasi che hanno portato alla nuova pratica delle riammissioni collettive a cui stiamo assistendo da fine marzo”, riprende Zajović Milka. “Dopo anni di respingimenti illegali, a fine del 2021 numerose prove hanno costretto la Croazia a cambiare per la prima volta il suo modus operandi. Poi, l’anno scorso, è stato introdotto un foglio di espulsione di sette giorni, un primo tentativo di regolarizzare l’allontanamento delle persone dal Paese”.
Non solo la Croazia ma anche la Commissione europea, che ha finanziato e finanzia il Paese per la gestione delle frontiere europee (così come la Bosnia ed Erzegovina, si veda anche il caso di Lipa), si sono trovate nell’imbarazzante situazione di dover rispondere delle illegalità commesse alle frontiere. “Con questo foglio è diventato più facile passare attraverso la Croazia -prosegue Zajović Milka-. Nel frattempo, dall’inizio di quest’anno, centinaia di persone vengono rimpatriate in Croazia per via del regolamento di Dublino, che prevede il ritorno nel primo Paese di ingresso nell’Unione europea”. La Croazia, entrata questo gennaio nell’area Schengen, deve gestire le persone in arrivo nell’Ue, provando a evitare (o a tentare di celare) le violenze per cui è stata sanzionata. D’altra parte, la Bosnia, recentemente promossa a candidata nell’Ue, è disponibile ad accogliere le persone riammesse, non senza tensioni interne.
Nonostante negli scorsi anni diversi tribunali, in Italia, Austria e Slovenia, si siano pronunciati contro le riammissioni basate su accordi bilaterali, la Commissione europea incoraggia questa pratica. Il Patto sulla migrazione e asilo proposto nel settembre 2020 pone l’enfasi sugli accordi bilaterali tra Paesi per implementare le procedure di ritorno e riammissione in Paesi terzi o di origine. “Stiamo vedendo un rafforzamento di Frontex, la creazione di nuovi centri di detenzione alle frontiere esterne europee e a maggiori finanziamenti per nuovi database volti a facilitare le deportazioni da Bosnia e Serbia, incoraggiate a firmare accordi di ritorno con i Paesi di origine”, riflette Zajović Milka. Il campo di Lipa, finanziato dall’Unione europea, ne è la prova, come aveva pronosticato anche la rete RiVolti ai Balcani.
Secondo i dati dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni, inoltre, nel periodo tra il 6 e il 19 marzo 2023 solo 132 persone sono state registrate a Lipa, su un totale di 1.512 posti.
Riaz cammina tra i container vuoti con il telefono in mano mentre sistema la sua felpa verde militare. Gli piace perché gli ricorda la sua uniforme da poliziotto che indossava prima del ritorno al potere dei Talebani. Abbandonato da tutti gli eserciti internazionali, non ha avuto altra scelta se non intraprendere il viaggio in forma forzatamente irregolare dall’Afghanistan fino alla Bosnia ed Erzegovina.
“La maggior parte delle persone deportate se ne va subito. Alcuni sono deportati con gli autobus, altri lasciati nella foresta”, spiega. Usa erroneamente il termine “deportazione” per descrivere pratiche diverse che ai suoi occhi hanno lo stesso effetto. Le recenti riammissioni non hanno infatti fermato i respingimenti illegali. Mentre viaggia verso il confine sloveno Suleyman (nome di fantasia), ragazzo afghano, racconta al telefono l’esperienza di qualche giorno prima. “Sono stato sette giorni in detenzione senza cibo e da bere solo acqua sporca. Ci hanno preso i telefoni, i soldi; hanno bruciato i vestiti e gli zaini”. Lasciato in un bosco sul confine bosniaco è tornato a piedi a Lipa, per ripartire tre giorni dopo verso la Croazia. Il racconto si interrompe, chiude la chiamata. “Ci ha fermato la polizia, non so che cosa ci succederà”, scrive in un messaggio.
“Tutto sembra lasciato al caso -osserva Zajović Milka-: alcune persone saranno riammesse in Bosnia, altre respinte illegalmente, altre potranno chiedere asilo e altre otterranno il documento di espulsione di sette giorni. Secondo Ines di Kompas 071 l’effetto è chiaro: “La Bosnia è una sorta di purgatorio per le persone in transito, continuamente respinte. È un gioco che va avanti da anni ma ora stanno cercando di rendere questa pratica legale”.
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