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Referendum: la “stabilità politica” porta “sviluppo economico”?
La storia insegna che le istituzioni internazionali come Banco Mondiale e Fondo Monetario hanno spesso sacrificato la democrazia sull’altare della crescita, come dimostra il Cile di Pinochet. In Italia, invece, nei dieci anni dal boom economico si alternarono ben 11 esecutivi. “Sull’andamento economico incide, oltre alla congiuntura internazionale, la percezione interna ed esterna della stabilità, non certo la mera durata dei governi o la sicurezza di sapere chi ha vinto” scrive Volpi
Esiste un legame tra stabilità politica e sviluppo economico? Questa domanda sembra essere tornata molto in auge negli ultimi mesi, alimentata dal dibattito sul referendum istituzionale e, soprattutto, sulla base di autorevoli prese di posizione internazionali che sostengono proprio l’indissolubilità di tale nesso.
Ma davvero la stabilità politica costituisce la condizione necessaria per un buon andamento dell’economia? Ed è questa la domanda corretta da porsi? Proviamo a suggerire alcune considerazioni che suscitino almeno qualche dubbio in merito.
1) A lungo il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale hanno giudicato potenzialmente molto più efficienti i Paesi in cui esistevano governi stabili, tanto da ritenere che la virtù della stabilità dovesse essere preferita alla democrazia nell’attribuzione dei rating dei singoli Stati. Laddove governava un dittatore, una giunta militare o una compagine ministeriale nata per effetto di un colpo di Stato, magari con qualche appoggio esterno non troppo disinteressato, esistevano, secondo le logiche del famoso “Washington consensus”, i migliori presupposti per attrarre gli investimenti internazionali che quindi potevano beneficiare delle garanzie finanziarie messe in campo, appunto, da Banca Mondiale e Fondo Monetario. In tal modo, per anni, si è compiuto l’errore di scoraggiare i processi democratici, ritenuti fonte di incertezza e sottoposti a troppe variabili non facilmente controllabili, a cominciare dall’opinione popolare; non è un caso che il Cile di Pinochet è stato considerato uno dei paradigmi più riusciti del “felice” rapporto tra stabilità politica e crescita del Pil. Purtroppo una simile logica trascurava quasi del tutto l’incapacità del dittatore di turno di adoperarsi per una reale redistribuzione della ricchezza generata dagli investimenti esteri senza la quale, pur in presenza di un aumento del Pil, non si assisteva ad un incremento del reddito di una larghissima parte della popolazione.
2) Quando si fa riferimento alla stabilità politica sarebbe opportuno non identificarla con la semplice durata dei governi che ne costituisce soltanto un aspetto particolare. La vicenda italiana è, a riguardo, molto eloquente. Gli anni del miracolo economico hanno rappresentato uno dei periodi in cui si sono succeduti un gran numero di governi “balneari”, destinati a durare lo spazio di un mattino. Mentre il Pil cresceva mediamente di oltre 5 punti l’anno, il reddito per abitante conosceva un vero e proprio raddoppio e la disoccupazione crollava sotto il 4%, a Roma si susseguivano governi a raffica. Nella terza legislatura, quella coincidente con gli anni migliori della nostra economia -inauguratasi il 12 giugno 1958 e protrattasi fino al 18 febbraio del 1963- si alternarono ben cinque governi, uno dei quali, il gabinetto Tambroni, fu al centro di fortissime tensioni sociali. Ma anche la legislatura precedente, quella compresa fra il 25 giugno 1953 e il 14 marzo 1958, fu contraddistinta dalla successione di sei governi. In estrema sintesi, quindi, nei dieci anni di maggior crescita dell’economia italiana, la durata media dei governi in carica risultò essere inferiore ad un anno.
Peraltro, tali esecutivi erano sostenuti da maggioranze destinate a cambiare nel tempo, con formule politiche che dal centrismo approdavano al centrosinistra. A conferma, per il caso italiano, dell’inesistenza del legame tra durata dei governi e crescita economica può essere utile ricordare che i due governi più “longevi” nella storia repubblicana sono stati gli esecutivi Berlusconi II, dal giugno 2001 all’aprile 2005, e Berlusconi IV, dal maggio 2008 al novembre 2011, durante i quali i dati macroeconomici del Paese non furono certo rosei; la crescita annua del Pil si attestò attorno all’1% durante il primo esecutivo e fu ampiamente negativo nel secondo, quando pesarono in maniera decisiva gli effetti della grande crisi internazionale.
Proprio quest’ultima constatazione premette di inserire un ulteriore elemento di valutazione, naturalmente molto ovvio: sull’andamento economico incide, oltre alla congiuntura internazionale, la percezione interna ed esterna della stabilità, non certo la mera durata dei governi o la sicurezza di sapere chi ha vinto. Nella storia italiana lo sviluppo economico si è associato ad una più generale idea di tenuta del Paese, in grado di condividere una visione comune. Così è avvenuto nella stagione giolittiana, quando la fiducia nel futuro dell’Italia ha convinto milioni di emigranti a comprare titoli del debito pubblico nazionale per sostenere la spesa pubblica necessaria a far crescere il Paese. Così è avvenuto negli anni del miracolo economico, allorché le diverse strategie, dal Piano Vanoni, alle riflessioni di Fanfani, La Malfa, Moro e Nenni, parevano capaci, insieme al progressismo kennediano, ai pontificati di Giovanni XXIII e di Paolo VI e alla valutazioni autocritiche di una parte della sinistra dopo i fatti d’Ungheria, a dar corpo ad una nuova idea di democrazia realmente egualitaria.
Sono le visioni comuni e non le fratture a determinare quella stabilità condivisa e democratica che può sostenere la ripresa economica; la chiarezza che esce dalle urne è solo la conseguenza della chiarezza dell’idea di Paese la cui definizione non può essere affidata alle sole architetture istituzionali o, peggio ancora, a ingegnerie elettorali.
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