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Finanza / Opinioni

Questa “minimum global tax” è uno specchietto per le allodole

L’annunciata aliquota al 15% per le corporation rischia di essere il pretesto per non cambiare il quadro della tassazione internazionale in materia di digitale e per evitare di smontare il sistema dei paradisi fiscali, conveniente per gli Stati Uniti. L’analisi di Alessandro Volpi

© Annie Spratt - Unsplash

L’ossatura del Paese. Nel 2019, ultimo anno i cui dati sono disponibili, i contribuenti Irpef sono stati 41,5 milioni per un reddito complessivo dichiarato di 844 miliardi di euro e un valore medio di poco meno di 22mila euro. In realtà quelli che hanno versato l’imposta sono stati 31,2 milioni, perché 10,4 milioni non hanno presentato la dichiarazione in quanto titolari di livelli reddituali compresi nelle soglie di esenzione o le cui imposte sono state azzerate per effetto delle detrazioni previste. In realtà ci sono poi altri 2,4 milioni di soggetti la cui imposta è compensata per intero dal bonus degli 80 euro.

Se si analizzano ancora meglio i dati emerge che il 70% dei contribuenti, quelli con redditi compresi fra 15 e 70mila euro, versano il 67% dell’intero carico fiscale. È evidente, alla luce di ciò, che sarebbe decisamente opportuno rimodulare la pressione fiscale nel nostro Paese per evitare che questa fascia di popolazione tenga insieme gran parte delle entrate fiscali italiane. Magari una tassa di successione, calibrata sulle aliquote europee, una revisione dell’imposizione sulle rendite finanziarie, un contenuto aumento dell’Iva sui beni non essenziali consentirebbero a una parte considerevole della società italiana di non impoverirsi ulteriormente.

I dati citati confermano infatti che la riduzione degli scaglioni di aliquota e la perdita di progressività del sistema fiscale italiano nel suo insieme, unite all’accentuazione delle disuguaglianze generate dalla pandemia, non sono più sostenibili in termini sociali. Ciò è reso ancora più indispensabile da un’ulteriore considerazione che riguarda il “fisco europeo”.

L’imposizione sulle società produce un gettito, nei Paesi Ocse, come del resto in Italia, di appena il 2,5% del totale, con un crollo verticale negli ultimi trent’anni. Questa erosione è destinata a proseguire ulteriormente, mentre i profitti, soprattutto dei grandi gruppi, lievitano. Sono sempre più evidenti due fenomeni. Il primo è rappresentato dalla capacità che hanno le società digitali di sottrarsi alla definizione di una base imponibile. Al di là della difficoltà a tassare i loro profitti, esistono momenti di creazione di valore nei passaggi dalle piattaforme digitali, agli sviluppatori di app, ai provider che sfuggono a qualsiasi quantificazione imponibile così come rimane non sottoponibile a tassazione l’enorme mole di big data di cui dispongono e che determina importanti redditi. Oggi la produzione del reddito è in larga parte all’interno di questi circuiti che non risultano di fatto soggetti a imposte, mentre i beni materiali e la forza lavoro continuano ad essere duramente colpiti.

Il secondo fenomeno è costituito dalla dinamica della fuga verso i paradisi fiscali. È ormai chiaro che larga parte dei profitti trasferiti verso tali destinazioni provengono da Paesi dell’Ue, in particolare Germania, Francia e Italia, e, dopo essere transitati per i paradisi, vanno a finire in larghissima misura negli Stati Uniti. In questo senso, le società europee sottraggono risorse al fisco nazionale e rafforzano l’economia Usa. Alla luce di ciò non pare una buona soluzione accettare la proposta, al ribasso, proveniente dall’amministrazione Biden, di introdurre una minimum global tax con aliquota al 15%, quindi ben sei punti in meno rispetto all’ipotesi formulata ad aprile.

Le resistenze dei “paradisi fiscali” europei, a cominciare da Lussemburgo e Irlanda, sembrano infatti aver, inopinatamente, piegato i grandi Stati fondatori, facendo leva però sulle loro debolezze e inducendoli a convenire sull’aliquota ridotta. Certo, se si considera che oltre 500 società e cinque banche italiane hanno sede nel principato lussemburghese -e numeri non molto diversi valgono per Francia e Germania- si capisce meglio perché l’accordo al ribasso, al di là delle esigenze di un’intesa complessiva, non risulti così sgradito. Proprio per queste ragioni la proposta di Biden della minimum global tax rischia di essere lo specchietto per le allodole per non cambiare il quadro della tassazione internazionale in materia di digitale e per evitare di smontare troppo il sistema dei paradisi fiscali, davvero molto conveniente per gli Stati Uniti. Della web tax abbiamo bisogno per dare respiro ai contribuenti italiani e dalla presidenza Biden l’Europa non dovrebbe pretendere solo la sospensione delle ritorsioni doganali.

Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento

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