Diritti / Opinioni
Quel “giornalismo di guerra” che non aiuta a comprendere il conflitto
La logica dello schieramento ha prevalso sull’analisi e sulla riflessione. Sarà difficile recuperare credibilità. La rubrica di Lorenzo Guadagnucci
L’invasione russa dell’Ucraina, lo scorso 24 febbraio, ha messo alla prova il giornalismo di tutto il mondo, poiché la guerra non è solo il cimitero della verità, ma anche un evento estremo che mette in primo piano le domande di fondo: qual è il compito precipuo dell’informazione, la sua ragion d’essere? I manuali di giornalismo indicano chiaramente la via: informare verificando ogni notizia, scansando la propaganda; contribuire a un dibattito serio e approfondito, che colga e valuti ogni aspetto del conflitto in corso.
In attesa di analisi più articolate e scientificamente fondate, possiamo già dire qualcosa sul giornalismo italiano osservato nei giorni successivi all’aggressione militare. La prima impressione è netta: il nostro sistema mediatico -quello mainstream, diciamo i tre quotidiani più diffusi, i principali network tele e radiofonici- ha mostrato enormi difficoltà a seguire tale via maestra. L’informazione è stata tempestiva e abbondante, coi fatti seguiti ora per ora, con numerosi corrispondenti dai luoghi del conflitto, ma si è ceduto rapidamente, secondo abitudini consolidate, a un registro prevalentemente emotivo, nei canoni sperimentati dalla cosiddetta “tv del dolore” (e della paura). Molto cuore, molta commozione, ma scarsa attitudine a proporre analisi, prospettiva storica, pluralità di punti di vista. Scarsa attitudine, soprattutto, a stimolare una discussione profonda prima di compiere scelte delicate, come, ad esempio, il sostegno militare all’Ucraina.
Sono sette i Paesi europei dove sono dislocate testate nucleari. Oltre a Francia e Gran Bretagna (che ne hanno di proprie) si trovano anche nelle basi Nato in Olanda, Belgio, Germania, Italia e Turchia
Il governo italiano ha preso le sue decisioni -le forniture di “armi letali” e lo stato d’emergenza- senza esplicitare davvero né le motivazioni né i possibili effetti di tali scelte. Non si è nemmeno chiarito se l’invio di materiali bellici sia compatibile con l’articolo 11 della Costituzione sul ripudio della guerra come strumento di soluzione delle controversie internazionali e con la legge 185 sul commercio di armi. Né si è stabilito se l’Italia debba considerarsi o no, dopo tale scelta, co-belligerante, come alcuni giuristi ed ex generali hanno subito affermato. I principali commentatori ed editorialisti hanno immediatamente assunto una postura che potremmo definire “interventista”, in sintonia con governo e Parlamento, in un clima di sovraeccitazione, tanto da far correre il pensiero al fervore del “maggio radioso” di oltre un secolo fa, quando una travolgente campagna politica e mediatica spinse l’Italia nella Grande guerra.
La logica di schieramento ha preso il sopravvento sul bisogno di riflessione. Le voci dissonanti, chi ha paventato un’estensione del conflitto, chi si è impegnato a ricostruire il ruolo della Nato dopo la fine dell’Urss con la sua discutibile espansione verso Est, chi ha fatto notare la discrepanza fra gli interessi della Nato a guida Usa e l’Unione europea, chi ha chiesto alla Ue di assumere un ruolo di mediazione anziché di parte in causa nel conflitto, chi ha parlato di resistenza civile da preferire a quella armata, è stato escluso dal dibattito, o relegato ai suoi margini.
O, peggio ancora, è stato indicato come “amico di Putin”. La stessa manifestazione contro la guerra del 5 marzo è stata mal sopportata e quindi mal raccontata e poi espressamente attaccata (si è affermato nei media e in politica un esplicito antipacifismo). Un comodo “giornalismo di guerra” sembra avere preso il posto di un più difficile, ma necessario, “giornalismo nella guerra”. Comunque vada a finire, sarà difficile recuperare la credibilità perduta.
Lorenzo Guadagnucci è giornalista del “Quotidiano Nazionale”. Per Altreconomia ha scritto, tra gli altri, i libri “Noi della Diaz” e “Parole sporche”
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