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Putin, il fu “giardino di pace” e una classe politica senza visione
Invece di mettere in piedi una strategia di pace europea, l’Italia ha scelto di “stare nei ranghi”, in una posizione subordinata. La rubrica di Tomaso Montanari
Il primo marzo il presidente del Consiglio Mario Draghi ha pronunciato alla Camera dei deputati un discorso che ha segnato, di fatto, il nostro ingresso nella guerra scatenata da Vladimir Putin contro l’Ucraina. La prima parte di quel discorso è una candida ammissione di inconsapevolezza.
Alla realtà drammaticamente oggettiva della guerra in Europa, uno dei principali protagonisti recenti del governo dell’Europa reagisce confessando tutta la sua impreparazione. Ma è allora legittimo chiedersi se tra queste due cose non esista una profonda correlazione: e cioè se una delle cause della guerra (accanto a quella, principale, rappresentata dalla criminale volontà di potenza di Putin) non sia proprio l’assenza di visione, di strategia, di senso della realtà di una classe dirigente che pensava di vivere in un “giardino di pace” e invece costruiva i presupposti di un inferno.
Le ragioni di questo fallimento sono sintetizzabili nel governo Draghi: la ragione economica di chi fa affari con Putin (già artefice di scelte mostruose in Cecenia o in Siria) senza curarsi della sua tirannia (ragione perfettamente rappresentata dalla figura stessa del presidente del Consiglio). La ragione politica di chi è strettamente connesso all’internazionale nera sostenuta dal Cremlino (il giornalista Claudio Gatti ha dimostrato che “Matteo Salvini ha operato in veste di agente di influenza al servizio di un governo straniero, quello di Vladimir Putin, il più antidemocratico e aggressivo leader della storia europea contemporanea”, laddove “sebbene spesso non siano legati da un rapporto organico con i servizi di intelligence, gli agenti d’influenza sono tuttavia ‘gestiti’ e coordinati da strutture organizzate, riconducibili direttamente o indirettamente agli apparati di sicurezza e informazione o, comunque, al sistema di sicurezza e difesa di uno Stato, soprattutto nel caso di campagne d’influenza complesse, caratterizzate da un elevato livello di sofisticazione e proiettate a lungo termine”).
La ragione culturale di chi si è totalmente identificato nella politica espansiva della Nato (a invasione russa in corso, Enrico Letta ha detto che l’Ucraina avrebbe dovuto essere accolta già da tempo nell’alleanza atlantica), senza volere né sapere mettere in piedi una politica di pace europea.
La seconda parte del discorso giustifica un intervento armato (consistente nell’invio di armi al fronte e di uomini ai confini), ai limiti estremi dell’articolo 11 della Costituzione (“L’Italia ripudia la guerra”): perché se è vero che gli ucraini aggrediti hanno il diritto di difendersi, è anche vero che se la fornitura di armi non è accompagnata da una incisiva attività diplomatica (che, come le settimane successive renderanno chiaro, semplicemente non ci sarà, anche a causa della marginalità dell’Italia e dello stesso Draghi, escluso dai veri momenti di scambio e decisione), il risultato è solo quello di alimentare la guerra, non di circoscriverla.
In questa drammatica contrapposizione di fronti (e di nazionalismi) tra Occidente e Russia, l’Italia non ha fatto nulla per ristabilire quell’approccio multilaterale che è esattamente il contrario di una logica binaria.
L’Italia di Draghi ha accettato di stare nei ranghi, e in posizione subordinata, senza portare alcun contributo originale: accettando, cioè, fin dall’inizio il cinismo di un Occidente che ha usato l’Ucraina come scacchiera di una partita geopolitica con la Russia, ben sapendo che al dunque non avrebbe potuto difendere davvero gli “scacchi”, cioè i corpi vivi delle ucraine e degli ucraini.
Tomaso Montanari è storico dell’arte e saggista. Dal 2021 è rettore presso l’Università per stranieri di Siena. Ha vinto il Premio Giorgio Bassani di Italia Nostra
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