Cultura e scienza / Intervista
Pino Cacucci. Nella polvere del Messico
Lo scrittore da oltre trent’anni racconta le vene più profonde del Paese dell’America Latina. Nel libro “Dieguito e il centauro del Nord” il protagonista è Pancho Villa, che cento anni dopo il suo assassinio resta un simbolo per chi lotta
Pino Cacucci è lo scrittore italiano che da oltre trent’anni narra nei suoi libri “la polvere del Messico”, Paese di enormi contraddizioni e culla di rivoluzioni. Negli anni ha alternato racconti di finzione a romanzi storici, eccezionali reportage di viaggio e incredibili biografie nascoste, contribuendo, ad esempio, a far crescere anche in Italia il mito di Tina Modotti, fotografa nata alla fine dell’Ottocento in Friuli, migrante ragazzina prima negli Stati Uniti e quindi in Messico, dove morì nei primi anni Quaranta. L’ultimo libro di Cacucci, “Dieguito e il centauro del Nord” (Mondadori, 2024), è una storia delicata e familiare che intreccia il mito di Francisco “Pancho” Villa, uno degli eroi della Rivoluzione messicana del 1910, assassinato nel 1923.
Cacucci, com’è possibile che a distanza di un secolo questo mito resista?
PC La biografia più approfondita e definitiva di Villa è quella di Paco Ignacio Taibo II ed è stato un piacere per me a suo tempo tradurla (“Un rivoluzionario chiamato Pancho” uscì nel 2007 per Tropea, ndr). Pur avendo nei miei interessi la figura di Pancho Villa fin dal primo viaggio in Messico, nel 1982, quella traduzione mi ha permesso una conoscenza approfondita e da tempo coltivavo l’idea di raccontare la storia di un ragazzino di dodici anni che si ritrova dentro una caverna con Villa e deve farsene carico, perché l’eroe della Rivoluzione è ferito a una gamba e non può camminare né cavalcare.
Pancho Villa è nella memoria popolare del Messico, sia quello più umile sia quello letterario, degli scrittori, e il suo nome porta ancora oggi a grandi contrasti, polemiche e dibattiti: per una parte degli storici, persiste l’idea che tutto sommato fosse un bandolero, un bandito prima di diventare un rivoluzionario, un po’ come succede con Garibaldi in Italia: la storia dipende da chi te la racconta, come faccio dire nel mio libro al nonno Dieguito, che rievoca il suo incontro da bambino con Villa. Nel 2023, per il centenario del suo assassinio il Messico ha rinverdito un mito che non si è mai spento. Per quel che posso vedere, il suo nome e cognome vengono usati in tutto il Paese da comitati di lotta che rivendicano l’accesso alla terra, un lavoro degno, ma anche tra quelli che combattono per fermare il taglio clandestino degli alberi. Villa è una sorta di nume tutelare dei ribelli di oggi, una presenza che non si è mai spenta e che si ritrova anche sui muri. Sono tanti quelli in cui campeggia la scritta “Viva Villa”.
Racconti il Messico da oltre trent’anni. Il tuo primo libro dedicato, “Puerto Escondido”, da cui è stato tratto nel 1992 un film di Gabriele Salvatores, ha contribuito a costruire il mito del Paese in cui fuggire e farsi una nuova vita. Com’è cambiato il tuo Messico? Lo riconosci ancora?
PC Già a metà degli anni Ottanta, con la presidenza di Carlos Salinas de Gortari, si iniziò a vagheggiare di un Messico che entrava nel primo mondo, mentre una corsa alle privatizzazioni provvedeva alla sistematica distruzione di tutto ciò che la Rivoluzione, che furono in realtà più rivoluzioni, aveva comportato in termini di riforme sociali e agrarie. Dopo il Cile di Pinochet credo che il Messico -che è lì sotto agli Stati Uniti, in tutti i sensi- sia il Paese che più ha subito l’impatto della dottrina dei “Chicago boys”, del liberismo selvaggio. Quel periodo l’ho vissuto là: molti messicani hanno cercato di ribellarsi per difendere le conquiste, altri si sono arresi e buttati a far da manodopera alla malavita.
Nei primi anni Duemila è iniziata questa cosiddetta guerra al narcotraffico che è stata devastante. Ho assistito a tutto questo parallelamente alla turisticizzazione di massa di tutto il Paese: milioni di messicani da artigiani o contadini sono diventati camerieri e personale delle pulizie negli hotel. L’ho visto anno dopo anno, perché anche quando sono rientrato a vivere in Italia non ho mai smesso di tornarvi. A fronte di tutto ciò, però, se il mio legame con il Messico non si è mai interrotto è perché ci sono tante brave persone che lottano quotidianamente contro queste barbarie; la dignità, un’indole del popolo messicano, non è stata soffocata dal neoliberismo. Anche se Andrés Manuel Lopez Obrador (il primo presidente progressista del Paese, in carica dal dicembre 2018, ndr) non poteva fare miracoli, oggi il Messico si distingue da tanti altri Paesi dell’America Latina, nonostante sia l’unico che condivide una frontiera con gli Usa.
Il mito del Paese accogliente e in cui realizzarsi viene da lontano. La fotografa friulana Tina Modotti ne è un esempio. Che cosa racconta la sua storia?
PC Tina Modotti possiamo anche usarla come esempio di un’epoca, gli anni Venti e Trenta del Novecento, in cui in Messico e in particolare nella sua capitale, Città del Messico, accadono cose che il mondo odierno ha dimenticato. C’è una rivoluzione nei costumi che porta a sbarazzarsi di tradizioni nocive. Teniamo conto che non esisteva la televisione, la radio non c’era, ma grazie a un passaparola arrivarono nel Paese in tanti: dagli Stati Uniti e dall’Europa, dalla nascente Unione sovietica, come il poeta Vladimir Majakovskij e il regista Sergej Eisenstein, ma anche personaggi della cultura dal Giappone e dall’India.
Fu un polo d’attrazione incredibile, dove vivere istanze di libertà, di affermazione in merito alla parità tra i sessi, al diritto di vivere l’omosessualità. Buona parte del resto del Paese osteggiava tutto questo: in Messico c’erano i Cristeros, un movimento guerrigliero che uccideva i laici. Modotti arriva nel Paese giovanissima, dopo il matrimonio con il pittore Robo e dopo la nascita del suo rapporto con il fotografo Edward Weston. Andando a generalizzare, allora ma poi di più con la beat generation, il Messico diventa il posto dove puoi fare ciò che vuoi, senza essere punito. Ancora oggi persiste questa sensazione, che in parte è l’indole della messicanità: se non mi disturbi e se non fai danno a qualcuno puoi fare ciò che vuoi. Questo dà l’idea e l’illusione di una libertà molto più vasta che non puoi avere in altre parti del mondo: diverse generazioni sono andate in Messico “per reinventarsi una vita”. Un errore di molti è però credere che i messicani si possano fregare, solo perché non giudicano.
Un esempio di internazionalismo addirittura precedente è legato al battaglione San Patrizio, che combatté ai tempi della guerra d’invasione degli Stati Uniti d’America. Ne facevano parte anche soldati italiani. Che valore hanno, a distanza di quasi duecento anni, questi racconti, a cui tu hai dedicato un libro?
PC Ci ricordano che quella frontiera è una ferita che non si è mai rimarginata, la fonte di ogni disgrazia e di ogni violenza, oggi legata alla vita dei migranti. Ci ricorda di un Paese la cui superficie fino al 1846 era il doppio di quella odierna, degli Usa che se ne sono presi una metà, tirando una riga dalla California al Texas. È una piaga aperta, non sanabile. Nello Stato del Chihuahua si vendono souvenir di Pancho Villa descritto come l’unico uomo che ha osato invadere gli Stati Uniti (il riferimento è alla battaglia di Columbus, nel 1916, ndr).
A metà Ottocento il Messico, già Paese sovrano da qualche decennio, decise di aprire ai coloni anglosassoni, immaginando di poter così riempire un territorio grande e spopolato: cominciarono quasi a regalare terra, imponendo come unica regola quella di rispettare le leggi messicane. Ma i coloni si portavano gli schiavi africani e il Messico era il Paese che per primo aveva, almeno formalmente, abolito la schiavitù. Un altro problema riguardava le armi: gli anglosassoni pretendevano di usarle già allora come volevano. Questo portò a incidenti e a scontri, poi a una dichiarazione d’indipendenza del Texas, con gli Usa che arrivarono in soccorso. Scomodarono la Bibbia, che condanna chi non lavora le terre coltivabili, per dire “ce la prendiamo noi”.
Da allora credo che questa situazione non si sia più sanata, perché si sono presi un territorio che non era desertico, dove vivevano genti che erano messicane e si ritrovano a vivere come paria. Del Battaglione San Patrizio facevano parte migranti irlandesi, che nell’Ottocento erano trattati come quelli di oggi. Per un maschio sano non restava che arruolarsi, come si continua a fare. Ma avevano molto più a che spartire con i messicani che con gli americani, per questo passarono a combattere con loro.
Negli anni Novanta, mentre scrivevi libri dedicati al Messico indigeno e contadino (come “San Isidro Futból”, 1991), in Chiapas emerse la rivolta dell’Esercito zapatista di liberazione nazionale, nel gennaio 1994. Trent’anni dopo, come guardi quel messaggio antineoliberista e anticapitalista?
PC Quel fenomeno ha dato una scossa al resto del Messico ricordando che esiste una questione indigena e una forma larvata di razzismo nelle classi più abbienti. Credo che, forse, il loro messaggio abbia viaggiato quasi più all’estero che in Messico, ma è servito, ovunque sia arrivato, un po’ in tutta l’America Latina e poi ha prodotto il World social forum, uno dei tanti risultati ottenuti dal seme gettato dagli zapatisti. Non si limitarono a dire “noi ci mostriamo con il passamontagna altrimenti non ci vedete”, ma aggiunsero “se andate avanti così il Pianeta va verso la distruzione”: da tanti venne considerato un messaggio pittoresco, ma trent’anni dopo va addirittura peggio di quello che avevano presagito, provando a lanciare un allarme che pochi hanno capito.
Hai dedicato molti libri a protagoniste riconosciute e misconosciute della storia del Messico, come la pittrice Frida Kahlo. Nel 2024 per la prima volta il Messico avrà un presidente donna: che cosa ne pensi?
PC Nel 1988 scrissi un primo libro su Tina Modotti, “I fuochi, le ombre, il silenzio”, ormai introvabile, dedicando un capitolo alla pittrice Frida Kahlo, che allora conoscevano in pochi (il film “Frida” sarebbe uscito solo nel 2002, ndr). Il 2 giugno prossimo due donne si contendono la presidenza del Paese. Da una parte Claudia Sheinbaum Pardo, ex sindaca di Città del Messico, che se la vedrà con Xochtil Galvez, candidata delle destre. Se va in un certo modo può essere straordinariamente positivo, se va nell’altro però sarà una sciagura: la Galvez incarna il peggio del machismo messicano. Il colmo è che porta un nome indigeno, Xochitl, ma come direttrice della “Comisión nacional para el desarrollo de los pueblos indígenas” (la Commissione nazionale per lo sviluppo delle popolazioni indigene, ndr) è stata responsabile di alcune scelte aberranti dal punto di vista delle etnie indigene. Questo è, del resto, il Messico: Paese di contrasti.
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