Economia / Attualità
Per un vero diritto alla riparazione serve un design modulare dei dispositivi elettronici
Con il nuovo smartphone G22 la Nokia fa un passo avanti verso il self repair, fornendo pezzi di ricambio e manuali di riparazione in collaborazione con iFixit. Rimane però un tentativo insufficiente, poiché il design non permette una riparabilità “rapida” come rivendicato dalla casa produttrice
“Alte prestazioni. Riparabilità QuickFix. Design per longevità”: viene presentato così il nuovo modello Nokia G22, “l’apice di un telefono riparabile”. In particolare, viene data la disponibilità ai consumatori di accedere a strumenti e linee guida per riparare batteria e display, grazie anche alla collaborazione con iFixit, community globale di riparatori e traduttori che collaborano per fornire a chiunque pezzi di ricambio e manuali di riparazione gratuiti per dispositivi elettronici.
Sono questi i due pilastri del cosiddetto diritto alla riparazione, ovvero l’obbligo dei produttori di apparecchi elettronici di rispettare criteri di progettazione e montaggio che siano facili da riparare anche dall’utente stesso, campagna portata avanti a livello europeo da Right to Repair. Certamente, il G22 mostra un’apertura da parte di Nokia verso questa tematica, come per altro stanno facendo anche altri giganti come Apple, Samsung e Google. Passi avanti verso la giusta direzione, ma che ancora non garantiscono un vero diritto alla riparazione. Del programma di Apple ne avevamo già parlato qui, dopo che la campagna Right to Repair aveva segnalato come l’applicabilità del self repair era limitata solo a certi modelli e in alcuni Paesi, e con costi elevati che mettono in dubbio la convenienza effettiva della riparazione piuttosto che la sostituzione con un nuovo dispositivo, più moderno ed “economico”.
Il programma della Nokia presenta delle analogie. La preannunciata “riparabilità QuickFix”, in particolare, non corrisponde alla realtà dei fatti. “Il problema principale con il nuovo dispositivo è il suo design, che non è ottimizzato per lo smontaggio -ha detto Ugo Vallauri di Restart Project, organizzazione non profit londinese che coordina alla campagna di europea-. Ad esempio, la sostituzione della batteria richiederà 35-60 minuti secondo la guida ufficiale. La sostituzione dello schermo richiede anche uno smontaggio completo del dispositivo, un processo che può richiedere fino a due ore, non esattamente una ‘soluzione rapida’. Questo è piuttosto spiacevole, dal momento che le riparazioni dello schermo sono le più comuni che vediamo agli eventi di riparazione della comunità: i dati degli eventi internazionali che abbiamo analizzato come parte della Open Repair Alliance mostrano che il 41% di tutte le riparazioni sono sostituzioni dello schermo.”
Senz’altro è positivo che vengano dati dei pezzi di ricambio, tuttavia devono essere affiancati da un design modulare che consente davvero agli utenti di smontare i dispositivi in modo facilitato per riparare le singole parti danneggiate. Un esempio positivo che Vallauri porta è quello di Fairphone, il quale oltre a utilizzare materiali come l’oro certificati fairtrade, ha una struttura senza colla che la rende facilmente scindibile con l’uso di un cacciavite. Non a caso ha ricevuto un punteggio 10 su 10 da parte di iFixit per la sua riparabilità.
Nokia per altro non fornisce garanzie sufficienti sulla disponibilità di pezzi di ricambio, limitandosi solamente a rilasciare aggiornamenti di sicurezza per il software a tre anni dal lancio del modello (e non dal ritiro dal mercato). Per quanto riguarda i ricambi, invece, potrebbero essere tolti dal mercato in qualsiasi momento. Le nuove normative europee sull’ecodesign di smartphone e tablet, che sono state approvate a fine 2022, ma non sono ancora state pubblicate, e che dovrebbero entrare in vigore nel 2025, richiederanno ai produttori di alzare significativamente l’asticella in termini di gamma di parti disponibili, design per riparabilità, durata delle batterie e supporto software a lungo termine. In particolare, la campagna di Right to Repair si batte perché i pezzi di ricambio siano disponibili per almeno cinque anni dal momento in cui il prodotto viene tolto dal mercato, e soprattutto contro l’obsolescenza programmata, pratica in grande uso dalle case produttrici che interrompono gli aggiornamenti software o di sicurezza in modo arbitrario dopo troppo poco tempo.
“Un vero diritto universale a riparare deve permettere a tutti di scegliere a chi far riparare i prodotti -afferma Vallauri-. Se ripararlo da soli, magari partecipando a un repair cafè (rete di luoghi fisici, nata in Olanda, dove avvengono incontri per riparare un po’ di tutto: smartphone, elettrodomestici, computer ma anche vestiti, giocattoli e biciclette, ndr), oppure se andare da un riparatore indipendente o sceglierne uno “autorizzato” dalla casa produttrice, il punto è però che ci sia effettivamente una parità di scelta”.
Due sono le barriere più grosse che gli utenti si trovano di fronte quando si tratta di diritto alla riparazione: il prezzo e le conoscenze tecniche. Queste ultime vengono spesso citate dalle case produttrici in fase di legislazione, alla richiesta di prodotti più facilmente riparabili vengono portati sul tavolo i rischi per la sicurezza nel caso in cui persone non formate si trovino a occuparsi della riparazione. Giustamente per questo motivo è importante che vengano forniti manuali con linee guida chiare e comprensibili per gli utenti, sui quali ricade comunque la scelta finale di chi incaricare della riparazione. “Per il tema del prezzo, spesso non conveniente, della sostituzione delle parti danneggiate, il sistema fiscale del Paese può aiutare a colmare il divario di costo e indirizzare i consumatori verso la soluzione più ecologicamente giusta -continua Vallauri-. Esistono in Paesi come Francia, Austria e Germania dei fondi per la riparazione da cui si può attingere per sgravare dal peso della spesa”. Per altro, una riparabilità più immediata aiuterebbe anche ad abbassare i costi, poiché il tempo speso sul prodotto sarebbe minore.
Attualmente in Italia non esistono fondi simili a quelli sopracitati, principalmente per la scarsa competenza e interesse della politica in materia di riparazione. Un tema che potrebbe potenzialmente avere un grande impatto positivo sull’elettorato, indipendentemente dal colore politico, poiché è di interesse comune che i prodotti elettronici siano più durevoli e riparabili. Per quantificare la portata del problema, è stimato che l’80% dell’impatto ambientale dei piccoli prodotti elettronici derivi dalla fase di produzione, e quando i dispositivi diventano rifiuti solo il 17% di essi vengono effettivamente riciclati. Puntare ad allungare la vita del prodotto risulta quindi la scelta ecologicamente migliore. Si attende dunque che la regolamentazione europea (più ambiziosa) per il diritto alla riparazione entri pienamente in vigore, cosa che dovrebbe accadere nei prossimi mesi. Nella speranza che quella che ora viene percepita come una mossa audace e innovativa, diventi normalità per tutte le case produttrici.
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