Diritti / Intervista
Perché è importante continuare a parlare di tortura (anche in Italia)
Vivere in un Paese democratico non mette al riparo dal rischio di subire abusi, trattamenti inumani e degradanti. Intervista alla psicologa Marialuisa Menegatto, curatrice di un saggio utile a tener vivo il dibattito pubblico
“La tortura è una costante storica. Non è uno strumento esclusivo delle tirannie, vivere nelle democrazie non vuol dire esserne al riparo”. Marialuisa Menegatto -borsista di ricerca presso l’Università di Padova- è psicologica clinica e di comunità, psicoterapeuta e dottore di ricerca in Scienze Umane. Insieme ad Adriano Zamperini e Francesca Vianello ha curato di recente la pubblicazione di un fascicolo a più voci della collana “Studi sulla questione criminale” (Carocci editore, 2018) dedicato alla “questione della tortura”. O come chiarisce nell’editoriale introduttivo Tamar Pitch, “a come essa viene o non viene definita e punita legalmente”. Al centro del quaderno monografico -rigoroso e a più voci- c’è l’Italia e il suo “giovane” reato di tortura, introdotto nel luglio 2017 dal Parlamento e del tutto inconciliabile con i testi delle convenzioni internazionali. Tanto da essere definito dai curatori del fascicolo una legge “sulla” tortura e non invece “contro” la tortura.
Dottoressa Menegatto, perché avete deciso di occuparvi “ancora” di tortura?
MM Perché la pratica della tortura non è scomparsa, nonostante l’ascesa di una cultura dei diritti umani. Resa indicibile e simbolo di inciviltà, la tortura si è nascosta, ha perso quella centralità e visibilità che aveva per la comunità di un tempo. Si è spostata in luoghi segreti e interdetti. Sosteniamo che la dichiarata avversione e il contrasto normativo con i quali ci siamo congedati dal Novecento non siano purtroppo i titoli di coda di un film a lieto fine.
A quali contesti fate riferimento?
MM Le vicende individuali e collettive sono molteplici e complesse. Potrei citarvi il caso della giovane vita spezzata di Giulio Regeni, in Egitto, al quale questo quaderno è dedicato. O alla tortura praticata dagli Stati Uniti a Guantanamo, sostenuta da opinion leader e studiosi che giunsero addirittura a teorizzarla quale strumento antiterrorismo. I vertici della CIA dopo l’11 settembre 2001 dissero: “The gloves are off”.
E l’Italia?
MM Come hanno dimostrato i fatti di Genova 2001, o quelli relativi agli “Anni di piombo”, l’Italia non è immune. Al di là di un rassicurante storytelling politico, la patria di Cesare Beccaria ha conosciuto e conosce il fenomeno, e per combatterlo è indispensabile dotarsi di leggi appropriate.
Il volume analizza in profondità il reato introdotto con la legge del 14 luglio 2017 dal Parlamento.
MM Diamo conto della sua debolezza e del rischio di fallimento del nuovo strumento giuridico. Il magistrato Enrico Zucca, che ha rappresentato l’accusa al processo sui fatti della Diaz, sostiene in questo volume che la legislazione italiana si è allontanata dalla definizione della Convenzione ONU sulla tortura e non ha rispettato i principi vincolanti della Corte europea dei diritti umani sulla necessità di prevedere che il reato non sia soggetto alla prescrizione e che non vi sia il rischio che le sanzioni siano altrimenti rese inefficaci.
“Resa indicibile e simbolo di inciviltà, la tortura si è nascosta, ha perso quella centralità e visibilità che aveva per la comunità di un tempo”
Nel saggio scritto con Adriano Zamperini, professore di Psicologia della violenza presso l’Università di Padova, affermate che il legislatore italiano non avrebbe “nemmeno sfogliato” il Protocollo di Istanbul sull’efficace indagine e documentazione della tortura. Perché?
MM La norma ha previsto come conseguenza della tortura un “verificabile trauma psichico”. In questo modo si è scaricato l’onere della prova sulla vittima, costretta a esibire un danno psichico conforme a ciò che può essere percepito come tale dal valutatore. Poiché il danno psichico non è osservabile come una qualsiasi lesione sul soma, la vittima è costretta a mettere in scena il proprio trauma. E invece di tutelarla la si espone a un processo di ri-vittimizzazione.
A chi è indirizzato questo quaderno?
MM A chi si occupa di tortura. Ai giuristi ma anche a chi svolge il lavoro di polizia penitenziaria ad esempio, perché è importante misurarsi con questi temi, visto che loro stessi hanno il monopolio dell’uso della forza. Ancora: operatori socio-sanitari chiamati ad assistere i tanti migranti torturati presenti nei centri di accoglienza. Ma siamo convinti debba e possa raggiungere anche un pubblico generale, ovvero la cittadinanza nel suo complesso.
Perché?
MM La maggior parte delle persone coinvolte in episodi di violenza, odio o repressione non è mai quella che subisce o che agisce, quanto quella che assiste, anche successivamente. Il tipo di ruolo che incarna lo spettatore è anche molto rassicurante: “Non è successo a me” e ci si mette al riparo dalle conseguenze. L’idea invece di assistere in maniera attiva è tutto un altro ruolo, molto interessante. Lo spettatore è colui che non appartiene al gioco diretto “perpetratore-vittima”, ma può fare qualcosa in quanto cittadino di uno Stato di diritto.
La mano protesa dello spettatore è la salvezza del torturato?
MM Sì. Una mano che può protendersi o ritirarsi grazie all’attività di osservazione critica cui è sottoposta la tortura. È in questa prospettiva che si inserisce questo volume. È inutile illudersi che la situazione normativa possa cambiare: il cambiamento del testo del reato di tortura non mi sembra nell’agenda di questo governo. Continuare a portare luce sulle criticità e sui limiti dell’ordinamento giuridico italiano sulla tortura contribuisce a vedere ad allargare l’orizzonte. Quando tutto intorno si cerca invece di restringerlo.
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