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Papa Francesco: delegittimazione in corso

Attaccato dai nazionalisti religiosi, ammonito dall’amministrazione Trump e indebolito dalle speculazioni finanziarie della Curia, il pontificato di Bergoglio sta vivendo un momento critico. Sullo sfondo vanno delineandosi nuovi centri di potere. L’analisi di Alessandro Volpi

© Fb papa Francesco

Il pontificato di Francesco sta vivendo una crisi profonda e, per molti versi, sconosciuta nella storia della Chiesa. Quella in atto è un’opera di vera e propria delegittimazione del suo magistero e del suo ruolo, di fatto già profondamente indebolito dalla presenza, del tutto anomala, di un “papa emerito” peraltro non del tutto silente. Bergoglio subisce la costante e neppure troppo sotterranea polemica del populismo che contrappone all’istituzione ecclesiale una devozione molto tradizionalista, spesso legata a doppio filo a un nazionalismo chiuso in se stesso e ostile ad ogni ipotesi di universalismo, a cominciare da quello religioso. Il nuovo populismo, così come accadeva nella tradizione populista, coltiva infatti con cura un “nazionalismo religioso” e, soprattutto, il superamento della separazione fra Stato e Chiesa, concependo un’idea assolutizzante del potere che ha bisogno del sostegno della fede popolare, in contrasto con ogni forma di gerarchia diversa da quella del capo politico, espressione della nazione in quanto tale.

Spesso il superamento di questa separazione e il legame del senso di appartenenza religiosa e di appartenenza politica avvengono utilizzando linguaggi contraddittori, ma non per questo meno efficaci.

Negli Stati Uniti esistono oltre 50 milioni di cattolici, distribuiti tra 17mila parrocchie; si tratta di una parte rilevante dell’elettorato americano a cui i presidenti hanno sempre guardato con estrema attenzione. La “strategia” populista di Trump appare ben consapevole di questa importanza e della necessità di conquistare il consenso di una porzione così rilevante dell’elettorato a stelle e strisce. L’unico presidente cattolico è stato, nella storia americana, John Kennedy e ora i democratici avendo scelto Joe Biden ne propongono un altro, dopo la candidatura di John Kerry nel 2004. Per combatterlo Trump ha deciso di alzare il livello di scontro persino con il pontefice ammonendo Francesco, attraverso il suo segretario di Stato, Mike Pompeo, a non rinnovare l’ accordo “segreto” con la Cina, siglato nel 2018 perché un tale rinnovo “mette in pericolo la sua autorità morale”. In altre parole, l’ex magnate, di confessione presbiteriana -dunque un calvinista che in realtà non ha mai veramente professato una fede religiosa- scopre l’esigenza di ammonire la guida della Chiesa sui pericoli delle relazioni con la Cina, non per i cattolici in quanto tali, ma per la tenuta dell’autorità dello stesso pontefice; un’entrata diretta e dura in una questione religiosa a cui vengono applicati i criteri della politica estera degli Stati Uniti.

I cinesi sono antiamericani, sono antidemocratici e illiberali, come hanno testimoniato le violenze di Hong Kong e quindi Francesco non può firmare con i vertici di quel Paese alcun accordo se non vuole veder screditato il proprio magistero spirituale. Trump critica il papa per parlare a tutti i cattolici americani che hanno letto gli accorati appelli del cardinale emerito di Hong Kong, peraltro vicino alla destra americana, e per mettere in difficoltà così Biden, troppo “sottomesso” a un pontefice come Francesco che non ascolta gli appelli alla libertà. Il presidente uscente si appropria della questione religiosa in nome della difesa della libertà; al tempo stesso, per convincere anche la parte più conservatrice del mondo cattolico, indica il nome di una giudice alla Corte Suprema, al posto di Ruth Bader Ginsburg, che appartiene allo schieramento fondamentalista e dichiaratamente antiabortista.

Poi Bergoglio deve fare i conti con l’esplosione degli scontri di potere e degli eccessi che si manifestano nei centri finanziari della Curia romana, dallo Ior fino alla cassa della Sezione Affari generali della Segreteria di Stato; un turbine di operazioni finanziarie spericolate che hanno reso il Vaticano partecipe degli strumenti più azzardati del turbocapitalismo. La Segreteria di Stato è il dicastero della Curia Romana che più da vicino coadiuva il papa nell’esercizio del suo magistero. Ha un’origine storica che risale al XV secolo, alla Costituzione apostolica non debet reprehensibile del 31 dicembre 1487. Da allora il ruolo di tale dicastero è diventato sempre più centrale nella vita della Chiesa. In tempi più recenti, Paolo VI con la Costituzione Apostolica Regimini Ecclesiae Universae del 15 agosto 1967, nell’opera di riforma della Curia Romana avviata dal Concilio Vaticano II, ha dato un nuovo volto anche alla Segreteria di Stato. Giovanni Paolo II, promulgando nel giugno 1988 la Costituzione Apostolica Pastor Bonus ha poi diviso la stessa Segreteria di Stato in due sezioni: la Sezione degli Affari Generali e la Sezione dei Rapporti con gli Stati, nella quale confluì il Consiglio per gli Affari Pubblici della Chiesa. La prima di queste due sezioni è stata dotata di una propria cassa, definita spesso “la banca riservata dei papi” con una disponibilità di circa 700 milioni di euro provenienti, tra l’altro, dall’Obolo di San Pietro.

Durante la gestione del cardinale Becciu, dal 2011 al 2018, tale cassa ha fatto scelte quantomeno singolari: opacissimi investimenti immobiliari, un discutibile finanziamento a una cooperativa “familiare”, la partecipazione a vari fondi ad alto rischio finanziario. Di fronte a simili spericolate operazioni è quasi inevitabile porsi una domanda: perché una struttura così vicina al pontefice decide di impegnarsi in terreni tanto rischiosi che, peraltro, hanno partorito pessimi risultati? Perché la “banca riservata del papa” si è comportata come il più spregiudicato dei raider? Perché non preferire impieghi dall’evidente carattere etico?

Come accennato in apertura tutto ciò genera una delegittimazione del magistero papale che è differente rispetto alle tensioni dottrinarie che hanno caratterizzato le vicende della Chiesa: dalla polemica ottocentesca sul cattolicesimo liberale di Gregorio XVI e Pio IX, alla dura discussione sul modernismo di Pio X, al tema dei rapporti con la politica fino alle istanze del Concilio Vaticano II e al dibattito sulle Chiese del Silenzio. Le storiche lacerazioni che si consumavano dentro e fuori i confini della dottrina della Chiesa erano del tutto diverse dall’attuale opera di isolamento e di delegittimazione del papa destinata a consegnare l’utilizzo dei linguaggi religiosi, e anche delle risorse della Chiesa, ad altri centri di potere. Lo scontro non riguarda la secolarizzazione né l’organizzazione della comunità dei fedeli ma si concentra sulla volontà di togliere al pontefice il ‘monopolio’ del patrimonio religioso, declinando quest’ultimo termine in senso molto esteso.

Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento

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