Economia / Opinioni
Di fronte alla pandemia occorre l’isolamento, non l’isolazionismo
Il decreto “Cura Italia” è una boccata d’aria ma non basta. I tempi della crisi per Covid-19 non saranno brevi e il blocco sarà protratto. Il principale problema del Paese sarà dunque quello della carenza di liquidità. Ecco che cosa dovremmo fare, subito. L’analisi di Alessandro Volpi
Il decreto “Cura Italia” rappresenta una necessaria boccata d’ossigeno ma suscita diverse perplessità perché sembra scritto ancora pensando a una crisi simile a quella generata da un disastro naturale, non da un pesantissimo fenomeno sociale.
Sembra scritto cioè per superare un breve shock dopo il quale si torna alla normalità. Purtroppo è molto difficile che sia questo lo scenario più probabile: siamo entrati in una lunga fase straordinaria che ha bisogno, subito, di misure straordinarie, senza ragionare mese per mese.
Il breve rinvio delle scadenze fiscali, il credito d’imposta, i bonus da 500-600 euro, il ricorso a un fondo crediti hanno senso se si produce reddito e se, davvero, i tempi della crisi sono brevi. Nel caso invece di un blocco protratto, il principale problema del Paese sarà quello della carenza di liquidità. Se una parte importante del Paese non produce reddito, se si congelano le scadenze fiscali, se il costo del debito continua a salire, il rischio vero sarà, appunto, la mancanza di liquidità per una porzione significativa della popolazione italiana.
Per evitare tutto ciò servirebbe, subito, un ampio ricorso da parte dello Stato italiano al Meccanismo europeo di stabilità (Mes), un ricorso privo delle ormai inutili condizioni vessatorie, abbinato alla potenza di fuoco della Banca centrale europea, attraverso Banca d’Italia e, se necessario, non solo attraverso essa. In estrema sintesi è indispensabile, per un periodo emergenziale, un indebitamento pubblico finanziato da Mes e Bce. Ottenuto un simile intervento, che bloccherebbe subito gli spread, serve una nuova legge di bilancio, straordinaria, fatta con un decreto che metta risorse nelle “mani” degli italiani, imprese, famiglie e enti locali; anche enti locali perché, difficilmente, potranno avere le risorse non di competenza, ma quelle vere di cassa per continuare a prestare servizi insostituibili.
Non è davvero pensabile che la chiusura di un intero Paese si possa fare, mantenendo una legge di bilancio scritta, rapidamente, in un’era passata, così come non possono reggere bilanci di enti locali stesi prima dell’epidemia. Debito pubblico, circolazione monetaria, carico fiscale, produzione di reddito debbono avere, in questa fase di emergenza totale, una nuova declinazione, passata la quale si troveranno i modi per definire meglio i nuovi concetti e i nuovi strumenti economici.
Ma ora pensare con le categorie di due mesi fa significa affondare.
Peraltro, ciò che vale ora per l’Italia, tra pochissimo varrà per altri Paesi e quindi il caso italiano dovrà diventare un modello. Di fronte alla pandemia occorre infatti l’isolamento, ma non l’isolazionismo. Sono mesi, ormai, che i leader delle principali economie del Pianeta, paradossalmente fatta eccezione per la Cina, invocano protezionismo, celebrano e minacciano l’autosufficienza dei propri sistemi produttivi e finanziari. Una volta esploso il contagio, molti di quegli stessi leader hanno dichiarato di voler blindare i loro Paesi, bloccando merci e traffici, senza prendere peraltro misure sanitarie. È naturale che ora, quando la Federal Reserve, la Bce e persino il Fondo monetario internazionale dichiarano tardivamente di voler inondare il Pianeta di liquidità, i mercati finanziari e monetari non reagiscano e continuino a bruciare centinaia di miliardi di dollari e di euro. Immaginare di affrontare la pandemia con singole soluzioni nazionali è folle e, dunque, diventano inevitabili il tracollo delle Borse e l’isteria generalizzata.
Forse, di nuovo, sarebbe meglio definire una linea comune in grado di tenere insieme almeno gran parte delle economie mondiali, superando gli isolazionismi e, magari, chiudere per 15 giorni le Borse in maniera da bloccare le speculazioni ribassiste, le vendite allo scoperto e amenità simili. Occorrerebbe, nella stessa ottica, anche un diverso ruolo delle istituzioni internazionali. Nel pieno della più grande crisi sanitaria ed economica almeno dalla Seconda guerra mondiale, il G7 si è praticamente dissolto. Ma è possibile che l’organismo che riunisce i sette Paesi che generano ben oltre il 60% del Prodotto interno lordo mondiale e che avrebbe i mezzi e soprattutto la responsabilità di affrontare l’emergenza non senta il dovere di reagire? Perché non si stabilisce una strategia condivisa che affronti in modo unitario gli effetti tragici di questa situazione?
Forse la domanda è retorica e mal posta dal momento che gli Stati Uniti sono guidati da Donald Trump e l’Inghilterra da Boris Johnson, convinti fautori di tesi stravaganti in materia sanitaria e autoreferenti in tema economico, mentre la Francia di Emmanuel Macron e il Canada di Justin Trudeau, la cui moglie è stata colpita dal contagio, paiono incapaci di accettare fino in fondo la gravità della pandemia. Il Giappone, invece, sembra essere riuscito ad arginarla e non vuole in alcun modo mettere a repentaglio yen e Olimpiadi. Dunque, ognuno va drammaticamente per la sua strada, dimostrando che la stagione della collaborazione internazionale è finita nel momento peggiore. O forse, non è mai veramente esistita. Intanto, l’epidemia ha cambiato e cambierà il nostro modo di vita in maniera non episodica. Ciò significa che dovremo ripensare rapidamente le nostre città; se diventeranno sconsigliati gli spostamenti e gli assembramenti avremo bisogno di una nuova rete urbana fatta di negozi di prossimità, di una struttura di servizi a dimensione di quartiere, di piccoli spostamenti e di tanto smart working e insegnamento online. In pratica pare che serva, oltre ad una politica globale comune, un nuovo localismo digitale.
Università di Pisa
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