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Coronavirus: non basterà il Pil per misurare la recessione che ci aspetta

© Claudio Schwarz - Unsplash

Aver scelto la strada della “fortezza Italia”, mirata a contenere la diffusione di una pericolosa epidemia, assai difficilmente costituirà una parentesi superabile con politiche economiche “tradizionali” perché di tradizionale, dopo la chiusura del Paese, non ci sarà più nulla. L’analisi di Alessandro Volpi

Forse è ancora presto per fare considerazioni di natura generale sulla complessa vicenda della diffusione del Coronavirus, tuttavia alcune notazioni, certamente prive di valore scientifico, è possibile provare a tracciarle. Il problema principale posto dal Covid-19, secondo le autorevoli valutazioni dei virologi, è rappresentato dal fatto che, essendo un virus “nuovo” ad alta capacità di trasmissione, potrebbe generare un numero di casi così esteso da mettere in crisi la capacità di tenuta delle strutture sanitarie pubbliche; solo di quelle pubbliche perché le strutture private sono del tutto inutilizzabili per questo tipo di epidemie, non avendo i mezzi disponibili.

Di fronte ad un simile rischio, il governo italiano, le Regioni e i Comuni hanno deciso, dopo l’improvviso emergere di vari casi in pochissime ore, di chiudere di fatto il Nord del Paese, bloccando quasi del tutto ogni forma di “socialità”, dalle scuole, alle Università, ai luoghi pubblici fino al sistema delle imprese, nella sostanza tutti i nodi della rete sociale e civile nella zona che produce circa il 60% del Pil italiano e dove abitano oltre 30 milioni di italiani. Si è trattato di un provvedimento del tutto sconosciuto al nostro Paese; non è mai esistito nulla di simile sicuramente dalla nascita del Regno d’Italia, neppure durante i due conflitti mondiali, quando non sono state prese misure “preventive” di tal genere. In questo senso il paragone con la guerra e il conseguente linguaggio bellico sono privi di significato. Neppure la guerra ha prodotto un complesso di misure amministrative, di prevenzione, così massicce; i provvedimenti di guerra mobilitavano la popolazione, accrescevano la capacità produttiva, intensificavano le relazioni sociali non miravano all’isolamento e alla paralisi che era, semmai, una conseguenza del conflitto.

Un simile inedito storico sta avvenendo in piena era globalizzata, in cui il flusso di merci, di persone e di capitali ha costituito la base dell’economia, per effetto di una trasformazione delle strutture produttive e finanziarie che in circa 30-40 anni ha tolto a moltissime zone del Pianeta la capacità di autosostenersi e, nel caso italiano, ha creato una fortissima dipendenza dall’estero.
Il modello della globalizzazione, infatti, ha reso ogni parte del mondo vincolata alle altre e ogni catena di produzione del valore è ormai disseminata in territori diversi, vicini e lontani. I provvedimenti presi dal governo italiano, dunque, non hanno precedenti e sono in aperto contrasto con il consolidato funzionamento dell’economia contemporanea. Inoltre nelle società globali gli elementi determinanti nelle scelte, comprese quelle economiche, sono la credibilità, l’incertezza e il binomio fiducia- paura. Su questi dati, emotivamente molto condizionati e condizionanti, si muovono i mercati nelle loro diverse accezioni, dai flussi finanziari fino a quelli turistici.

L’Italia, di fronte alla minaccia del Coronavirus, ha scelto di rappresentarsi come il posto più pericoloso al mondo, forse più della stessa Cina, e di motivare tale immagine con la capacità, più forte di altri Paesi, di saper rappresentare in maniera corretta e esaustiva i propri dati epidemici. Si tratta di una scelta pesantissima -i virologi ci dicono obbligata- sul piano economico, sociale e culturale i cui effetti non saranno certo misurabili in qualche frazione di Pil in meno; quella che viene messa in discussione è, appunto, la credibilità, la percezione della affidabilità e il fascino stesso di un Paese dove si è proceduto, di fatto, ad imporre la fine della socialità e dove si è consigliato a praticamente tutti di rinchiudersi in casa sine die, demolendo proprio qualsiasi certezza e qualsiasi fiducia.

Ogni giorno che passa, nell’immaginario collettivo, degli italiani e del Pianeta, si aggrava così una ferita difficilmente sanabile che rischia di diventare non solo una insostenibile recessione economica ma una finora sconosciuta recessione culturale. Certo, la variabile tempo sarà decisiva perché la durata di siffatte misure risulta determinante nell’indebolire sempre più la tenuta di un intero sistema e persino dei suoi valori. Ma non ha alcun senso, come accennato, tentare di misurare un simile indebolimento dello spirito e dell’immagine della nostra comunità in termini di punti di Pil o promettere interventi in grado di garantire la ripresa economica e di evitare le impennate dello spread. Aver scelto la strada della “fortezza Italia”, mirata a contenere la diffusione di una pericolosa epidemia, assai difficilmente costituirà una parentesi superabile con politiche economiche “tradizionali” perché di tradizionale, dopo la chiusura del Paese, non ci sarà più nulla. In questo scenario, la scienza medica deve avere la forza e la responsabilità di dare le indicazioni, di cui dispone, avendo chiaro che sono in gioco, al tempo stesso, la salute e la tenuta di un Paese e che ogni misura ha un impatto decisivo, in un senso o nell’altro. La politica, in simili circostanze, non può avere alcuna autonomia rispetto alla scienza che deve, però, abbandonare una visione asettica e considerare gli effetti delle possibili psicosi, delle disobbedienze e dei danni dovuti a regole troppo severe. Non abbiamo bisogno di ricette che non considerino le controindicazioni.

Università di Pisa

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